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Pochi fondi, grandi risultati? Le ragioni dietro il paradosso italiano

Era la vigilia delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, quando Alison Abbott, corrispondente europeo per le politiche di ricerca per Nature, firmava un articolo che denunciava la preoccupazione dei ricercatori italiani: a prescindere dal colore del governo che sarebbe stato eletto, il trend in corso ormai da più di un decennio sembrava destinato a proseguire.

L'investimento pubblico in ricerca e sviluppo (R&S) nel 2008 si aggirava intorno ai 10 miliardi di euro. Nel 2016 era sceso a 8,7 miliardi. L'Italia nel 2017 ha investito circa l'1,3% del Pil in ricerca, quando la media europea si assestava intorno al 2%. Troppo lontani per competere con chi tra i Paesi europei ha fatto meglio (la Germania, con il 3%, la Francia, con il 2,2%).

Ma Alison Abbott in quell'articolo su Nature sottolineava anche il paradosso italiano. A partire dal 2005, la ricerca italiana ha aumentato la propria presenza nell'eccellenza scientifica mondiale, ovvero nel 10% di pubblicazioni scientifiche più citate. Non solo, in rapporto alla spesa in R&S, l'Italia produce più pubblicazioni di qualsiasi altro Paese dell'Unione Europea, seconda solo al Regno Unito. Il miracolo italiano è che al diminuire dell'investimento, sembra aumentare la qualità della ricerca. Ma quello italiano è davvero un paradosso che va contro ogni senso comune?

Pochi fondi, grandi risultatiVerso un'agenzia nazionale per la ricerca scientifica in Italia – è stato anche il titolo dell'incontro che si è tenuto lunedì 20 maggio in Aula Magna al Bo, per la rassegna BoCulture del Palinsesto Universa 2019, dove insieme a Alison Abbott (Senior european corrispondent di Nature nella sede di Monaco, dove si occupa di politiche per la ricerca scientifica in Europa, oltre che di neuroscienze, genetica e fisiologia), hanno discusso dello stato della ricerca italiana Fabio Beltram, membro del consiglio direttivo Anvur e docente di Fisica della materia alla Scuola Normale Superiore di Pisa, Francesca Pasinelli, direttrice generale della Fondazione Telethon, il rettore dell'Università di Padova e delegato Crui per la ricerca scientifica Rosario Rizzuto, moderati da Giovanni De Luca, direttore della sede regionale Veneto della RAI.

Per decostruire il mito del miracolo italiano, occorre guardare ai dati e a quello che è successo negli ultimi due decenni. “In questi anni sono cambiate le pratiche di pubblicazione, non si pubblica più nella rivista locale, 'sotto casa', o comunque lo si fa di meno” ha sottolineato Fabio Beltram. E questa tendenza, è particolarmente marcata nell'area delle scienze sociali. “Si tende a pubblicare su riviste con maggiore visibilità e questo ha prodotto quell'aumento misurato a livello internazionale osservato nei dati”.

Se dal 2018 si va indietro fino al 2002 e si guarda anno per anno quanto hanno pubblicato i ricercatori attivi, si registra un netto aumento delle pubblicazioni nel tempo. “Ma allo stesso tempo i ricercatori stanno invecchiando e la produttività negli ultimi anni sta iniziando a calare conseguentemente” sostiene Beltram.

Per spiegare il paradosso italiano osservato nei dati, Rosario Rizzuto ricorda alcuni cambiamenti fondamentali che sono occorsi negli ultimi 20 anni nel nostro Paese. “Innanzitutto sono entrate nuove linee di finanziamento: le charities, come Telethon o Airc, che prima non avevamo; e i fondi europei. Siamo insoddisfatti delle nostre percentuali di successo come Paese nei finanziamenti europei (fondi Erc, ndr), ma l'impatto di questo canale di finanziamento sull'Italia è infinitamente maggiore rispetto a quello di qualsiasi altro Paese. È benzina per una macchina che di benzina ne ha vista poca”.

In questi anni inoltre sono cresciuti i finanziamenti dei privati, soprattutto da parte delle grandi imprese, come ha illustrato Fabio Beltram. Il contributo alla spesa in ricerca è rimasto invece modesto per quanto riguarda le piccole imprese.

“I risultati che vediamo nei dati riflettono un cambiamento significativo che è avvenuto negli ultimi decenni in questo Paese” prosegue Rizzuto. “25 anni fa la ricerca biomedica ad esempio non aveva la possibilità di accedere a questi fondi”.

L'altro elemento di cui Rizzutto sottolinea l'importanza è l'introduzione del sistema di valutazione. “La cultura della valutazione oggi è radicata nelle università, e questo ha dato una spinta decisiva”. Non c'è stato alcun paradosso dunque secondo Rizzuto, alcune cose sono effettivamente cambiate, anche se questo non include maggiori finanziamenti complessivi alla ricerca.

“L'impatto del sistema di valutazione dell'Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, ndr) è stato certamente positivo per la ricerca” secondo Francesca Pasinelli, “ma la valutazione della qualità della ricerca (Vqr, ndr) dell'Anvur avviene ex post e determina l'allocazione dei fondi sulla base della performance degli atenei. Mentre deve esistere, e in Italia purtroppo non c'è, un sistema parallelo di finanziamento su base competitiva, e tematico, che avvenga ex ante. I Paesi più competitivi hanno un sistema di valutazione ex ante dei programmi di ricerca. Così si riescono a intercettare l'innovazione e i nuovi scienziati” ribadisce Pasinelli.

Anche Alison Abbott, da osservatrice esterna, fa notare che tra le differenze strutturali che separano l'Italia dagli altri Paesi europei, ce n'è una che risalta più di altre: “In Italia manca un'organizzazione che possa programmare l'agenda scientifica del Paese” commenta Abbott. “L'Italia dovrebbe munirsi di un'Agenzia nazionale per la ricerca scientifica che garantisca continuità e stabilità alle politiche per la ricerca”.

Possiamo allora dire che il paradosso italiano osservabile nei dati è l'effetto di una serie di cambiamenti strutturali che si sono verificati negli ultimi decenni, che hanno dato nuova linfa alla ricerca, ma che non certificano un vero e proprio balzo di qualità della ricerca italiana, che anzi continua a soffrire di alcuni mali sistematici.

Sono tre secondo Alison Abbott i fattori che maggiormente impattano negativamente sulla ricerca italiana: la mancanza di stabilità nelle istituzioni, che dovrebbero garantire una pianificazione sul lungo termine. Il basso numero di scienziati, dipendente certamente dagli scarsi finanziamenti. E la scarsa trasparenza nel modo in cui vengono prese decisioni in ambito scientifico. “Non sto dicendo che siano decisioni univocamente buone o cattive, ma vengono prese dietro porte chiuse. L'ultima vicenda di cui mi sono occupata riguarda lo Human Technopole, la cui nascita è stata se non altro problematica”.

A questo si aggiunge un sentimento diffuso di sfiducia e di ostilità nei confronti della scienza, che a volte ha preso forma concreta persino nelle aule dei tribunali, in cui sono state prese decisioni basate su consulenze scientificamente non informate. Alison Abbott fa menzione esplicitamente al caso Xylella.

Ma nonostante questo ci sono eroi, li definisce Abbott, che combattono battaglie a viso aperto e senza risparmiarsi, a dispetto di tutti gli ostacoli che possono incontrare, facendo riferimento questa volta al caso Stamina e all'impegno di Elena Cattaneo.

Ma il problema è forse proprio il fatto che manca una voce unita attraverso cui la comunità scientifica possa parlare alla società. Credo che l'Accedemia dei Lincei oggi stia cambiando e possa essere in grado di far sentire il consenso della comunità scientifica su molte tematiche” ribadisce Abbott.

Il Paese risulta inoltre spaccato tra nord e sud, anche per quanto riguarda la produzione scientifica e la conseguente ricompensa finanziaria prevista dal sistema di valutazione dell'Anvur. L'Europa deve affrontare una situazione analoga, spiega Abbott, tentando di appianare le differenze tra Paesi dell'Est e Paesi dell'Ovest, e ha allocato 3 miliardi di euro nel prossimo programma di finanziamento HorizonEurope per aiutare i Paesi dell'Est nella competizione per i fondi di ricerca.

L'Italia è dunque in grado di esprimere eccellenze scientifiche, specialmente nel campo della fisica delle particelle e delle scienze biomediche. E questo avviene a dispetto di un'incapacità del Paese di continuare quel processo di ammodernamento delle strutture a sostegno della ricerca scientifica solo in parte intrapreso.

Oltre agli scarsi investimenti in ricerca, la burocrazia universitaria, assimilata a quella di una pubblica amministrazione, rallenta tutte le procedure, dal semplice reperimento del materiale di laboratorio alle pratiche di reclutamento e assunzione. “Se nel Regno Unito un ateneo vuole assumere un giovane ricercatore, nel giro di un mese è già al lavoro in laboratorio. In Italia quando ci va bene ce ne vogliono 8 di mesi” ha rimarcato Rizzuto. “L'università avrebbe bisogno di maggiore autonomia, alla quale devono associarsi tutte le assunzioni di responsabilità del caso”.

Il bilancio che emerge è dunque la necessità di operare una serie di interventi per rivitalizzare la ricerca italiana, tutt'altro che in salute. Oltre al vecchio adagio, purtroppo sempre attuale, del sostegno finanziario, sembra sempre più urgente l'introduzione di un'istituzione a sostegno della programmazione della ricerca sul lungo periodo e della diffusione della cultura scientifica.

Parte dunque da Padova l'appello per un'Agenzia nazionale della ricerca scientifica, che deve essere raccolto per garantire all'Italia una competizione equa in un settore strategico, che consenta al nostro Paese di stare al passo con le esigenze dell'economia della conoscenza.

 

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