Ganbeto è il tredicenne protagonista di Se l’acqua ride (Einaudi, 2021) di Paolo Malaguti, romanzo che, in ex aequo con Afferra il coniglio di Lana Bastašić ha appena vinto la ventottesima edizione del Premio Letterario Internazionale “Latisana per il Nord Est” dopo essere arrivato in cinquina al Campiello. Nel frammento della sua vita di ragazzino alle prese con la scoperta delle anse, dei gomiti stretti, delle gole e delle piane della vita che Malaguti descrive, quello che però emerge prepotentemente non è tanto l’avvicendarsi degli episodi, che invero costituiscono l’ossatura del libro, ma il disvelamento di un microcosmo sconosciuto ai più. Il qui e ora del romanzo è infatti un tempo ormai concluso, che fa affiorare in chi legge l’eco di un modo di vivere che fu, di cui è come se conservassimo traccia in un luogo non ben definito di corpo e anima e che il racconto narrativo fa vibrare in risonanza con il presente, o invero con ciò che è invariante nel tempo e nello spazio.
Le geografia è quella della pianura veneta di oltre cinquant’anni fa, la trama un’avventura da Bildungsroman, nella fattispecie un viaggio per i canali, sul burcio, che sfocia in laguna, luogo che assomma tratti reali a valenze metaforiche. Ad accompagnare Ganbeto (mentre, tecnicamente, è lui che lo assiste come mozzo) è lo zio Caronte, che veglia su di lui ammonendolo, permettendogli di misurarsi con le voci delle Sirene che lo chiamano o, viceversa, allontanandolo dalle insidie esistenziali che spesso, per Ganbeto come per chiunque, nascono dentro più che provenire dall’esterno.
La nostalgia accompagna la lettura, mista a un senso di tenerezza per chi, come il protagonista o chi gli sta vicino – la madre o il padre, i compagni di scuola –, si affanna per spiegarsi cosa stia accadendo in un’epoca (quella, a per traslato la nostra) che cambia orizzonte troppo velocemente. Il mestiere lento del barcaro sta infatti, allora, rapidamente tramontando e Ganbeto potrà essere tra i primi a decidere di portare la sua vita fuori dal solco.
Chi legge è irretito dalla lingua, un pastiche a tratti ironico che arricchisce l’italiano delle sfumature della lingua regionale, in un esperimento – riuscito – vicino a quelli fatti con dialetti di altre regioni (Camilleri docet). Non serve il glossario che invero l’autore ha scelto di mettere alla fine, tutt’altro: le parole dicono di sé e del mondo di cui si fanno latrici quasi più con la potenza del solo suono che con l’attribuzione di un significato.
“Bisognerà insegnarci a ‘sto bocia come calumarsi dietro a una tosa” fa dire, per esempio, Malaguti a Caronte, e poi: “Calumare, nella lingua antica dei barcari, significa far scivolare qualcosa, una catena o una corda, fuori coperta. Ma nell’espressione usata da Caronte lo stesso termine indica le manovre di corteggiamento di un uomo nei confronti di una donna” prosegue, e infine: “Avrebbe in verità potuto anche gridare, e il ragazzo non avrebbe ugualmente accusato ricevuta, perso com’era nelle paludi dolcissime in cui si era impantanato da quando era risalito sul burcio. Poche cose restavano chiare, nella sua mente: che Pellestrina è un’isola magnifica. Che il mare ti entra dentro più dei fiumi. Che, soprattutto, non avrebbe fatto altro nella vita: il barcaro era l’arte per la quale sentiva di essere nato”.
Abbiamo intervistato l’autore.
“ Poche cose restavano chiare, nella sua mente: che Pellestrina è un’isola magnifica. Che il mare ti entra dentro più dei fiumi. Che, soprattutto, non avrebbe fatto altro nella vita: il barcaro era l’arte per la quale sentiva di essere nato