SCIENZA E RICERCA

In Salute. Distrofie muscolari, la svolta non c'è ancora ma sopravvivenza e qualità della vita migliorano

Le distrofie muscolari sono un ampio gruppo di malattie che alterano progressivamente la funzionalità muscolare fino a ridurre in modo grave la capacità motoria delle persone affette. Spesso ci riferiamo a questa patologia usando il singolare ma la molteplicità delle forme che può assumere, caratterizzate da fattori genetici differenti, diverse età di esordio dei sintomi ed eterogeneità nella progressione del quadro clinico, implica la necessità di uno sguardo plurale e, in alcuni casi, rende più difficoltosa la diagnosi.

Negli ultimi anni gli sforzi compiuti dalla ricerca per cercare di arrivare a una cura efficace sono stati molti, spesso condotti attraverso collaborazioni internazionali che provano a sviluppare diversi possibili approcci terapeutici. Purtroppo però, diversamente da quanto accaduto con altre patologie muscolari, nel caso delle distrofie un vero punto di svolta non è ancora arrivato. Tuttavia, rispetto al passato, oggi esistono terapie di supporto che riescono a migliorare moltissimo la sopravvivenza e la qualità della vita dei pazienti.

“Il problema - precisa però il professor Leonardo Salviati, direttore dell’Unità operativa complessa Genetica ed epidemiologia clinica dell’Azienda ospedaliera di Padova - è che non abbiamo delle terapie risolutive, nonostante siano anni che si cerca di aggredire il problema da vari punti”.

Cosa sono le distrofie muscolari

"Le distrofie muscolari - introduce il professor Leonardo Salviati - sono un gruppo complesso ed eterogeneo di malattie del muscolo. Le forme esistenti sono decine: alcune sono congenite e quindi i bambini possono nascere già gravemente affetti dalla patologia, altre invece esordiscono in età più avanzata, anche dopo i 40-50 anni. Sono patologie caratterizzate da un quadro generalmente progressivo, tendono quindi a peggiorare nel corso della storia clinica del paziente e andando a guardare la biopsia del muscolo hanno delle caratteristiche istologiche peculiari rispetto ad altre malattie muscolari.

Le forme più frequenti sono tre. Una è la Duchenne che è la distrofia muscolare quasi per antonomasia e colpisce essenzialmente gli uomini perché il gene che impedisce la sintesi della proteina mancante, la distrofina, è localizzato sul cromosoma X. Ha un’incidenza di 1 ogni 3000 maschi ed è la più comune. Le altre sono la distrofia facio-scapolo-omerale, che colpisce generalmente gli adulti, e la distrofia miotonica che può riguardare sia adulti che bambini. A dipendere dal sesso è solo la Duchenne", spiega Salviati.

La distrofia di Duchenne fu descritta per la prima volta nel 1868 dal neurologo francese Guillaume Duchenne de Boulogne, e le sue basi genetiche sono state identificate nel 1986. Le mutazioni nel gene della distrofina sono alla base anche della distrofia di Becker, caratterizzata da una minore incidenza (inferiore a 1 caso su 18.000) e da una forma più lieve e tardiva di malattia: in quest'ultima, infatti, non si ha un'assenza completa della proteina, come accade nella Duchenne, ma un’alterazione quantitativa o qualitativa nel suo funzionamento.

"Complessivamente le distrofie muscolari sono un gruppo abbastanza consistente di malattie: alcune forme sono molto rare ma messe insieme si arriva a un discreto carico di pazienti", prosegue il direttore dell’Unità operativa complessa Genetica ed epidemiologia clinica dell’Azienda ospedaliera di Padova.

E recentemente è nato il primo registro italiano per pazienti con distrofie muscolari e miopatie: l'adesione è volontaria e l'obiettivo di questo strumento, spiegano Fondazione Telethon e l’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare, è quello di raccogliere informazioni e dati utili allo studio di questo tipo di malattie genetiche rare.

Quali sintomi possono far sospettare la presenza di una distrofia

Ogni forma di distrofia muscolare ha delle caratteristiche specifiche da cui dipende anche l'esordio dei primi sintomi e la loro differente progressione. "I bambini colpiti dalle forme gravi stanno molto male e che ci sia un problema è evidente anche per un occhio inesperto. Nelle forme classiche della distrofia di Duchenne sono bambini che iniziano anche a camminare abbastanza bene ma nei primi anni di vita cominciano a sviluppare una progressiva debolezza e fanno fatica ad alzarsi da soli. Tipicamente ricorrono a quella che viene definita la manovra di Gowers con cui per mettersi in piedi si cerca di compensare con le braccia la mancata forza delle gambe. C’è poi un progressivo decadimento della funzione motoria e alla fine il problema maggiore è la compromissione dei muscoli respiratori. Lo stesso gene con mutazioni più lievi che alterano solo in modo parziale la funzionalità della distrofina lo si ritrova nella distrofia di Becker che può esordire molto più tardi nel corso della vita. Nelle forme meno gravi sono persone che riescono a continuare a camminare quasi per tutta la vita o perdono la possibilità di deambulare intorno alla quinta e sesta decade", spiega il professor Leonardo Salviati.

Come avviene la diagnosi 

Alcuni sintomi possono essere un campanello di allarme ma una diagnosi certa di distrofia può avvenire solo attraverso biopsia muscolare e analisi molecolari. "Un tempo - entra nel dettaglio il professor Salviati - la diagnosi passava prima dalla biopsia muscolare e poi, in base al risultato, si poteva avere una prima idea di quale fosse il difetto genetico. Ad esempio si andava a cercare se c’era la distrofina: di solito nella distrofia di Duchenne la distrofina non si vede e quindi si faceva già una diagnosi più o meno definitiva. Adesso sta prendendo sempre più piede l’idea di partire dalla genetica perché un conto è fare un prelievo e un altro è prendere un pezzo di muscolo, soprattutto se abbiamo di fronte un bambino".

"Neanche questo però è l’approccio ideale - precisa l'esperto - perché i geni responsabili della malattia sono potenzialmente centinaia e quindi se manca un’indicazione di cosa cercare può essere complicato arrivare a una diagnosi chiara senza effettuare la biopsia. Ci sono poi altre valutazioni cliniche ma di questo si occupano i colleghi neurologi. Noi riceviamo i campioni di DNA per fare l’analisi genetica, a volte prima e a volte dopo la biopsia".

Diagnosi genetica: essenziale sotto diversi punti di vista

Il professor Salviati si sofferma poi sull'importanza della diagnosi genetica, fondamentale sotto diversi punti di vista. "Innanzitutto perché in molti casi serve a definire la prognosi della malattia e avere un’idea di cosa il paziente deve attendersi negli anni successivi. Inoltre avere una diagnosi genetica permette di dare un consiglio genetico ai familiari. Le altre cose che è possibile fare sono la semplice diagnosi prenatale o addirittura la diagnosi pre-impianto: con le tecniche di fecondazione in vitro è possibile scegliere gli embrioni che non saranno affetti dalla patologia, senza dover ricorrere ad un’eventuale interruzione di gravidanza", approfondisce il direttore dell’Unità operativa complessa Genetica ed epidemiologia clinica dell’Azienda ospedaliera di Padova.

Il punto sulle terapie e le linee di ricerca più promettenti

Attualmente purtroppo non esiste ancora una cura risolutiva per le distrofie muscolari ma, sottolinea l'Osservatorio malattie rare, "la messa a punto di un approccio multidisciplinare, che comprende la farmacologia, la fisioterapia, la chirurgia ortopedica, la prevenzione cardiologia e l’assistenza respiratoria, ha permesso di limitare gli effetti della malattia e di migliorare le condizioni di vita". Questo ha permesso di raddoppiare nel corso dell'ultimo decennio le aspettative di vita delle persone colpite dalla forma più grave di malattia, la Duchenne. 

"Oggi ci sono tutte le terapie di supporto che riescono a migliorare moltissimo la sopravvivenza e la qualità della vita di questi soggetti. Sia per i bambini che per gli adulti ci sono gruppi multidisciplinari che gestiscono i pazienti. Viene curata molto la nutrizione e lo stesso accade per la postura: nelle malattie muscolari uno dei grandi problemi risiede nel fatto che non essendoci un adeguato sostegno dei muscoli i pazienti sviluppano scoliosi. Questo impedisce alla cassa toracica di espandersi con un conseguente peggioramento del problema respiratorio. Un terzo aspetto importante è assicurare la ventilazione quando è necessario", conferma il professor Salviati.

"Il problema - continua il direttore dell’Unità operativa complessa Genetica ed epidemiologia clinica dell’Azienda ospedaliera di Padova - è che non abbiamo delle terapie risolutive, nonostante siano anni che si cerca di aggredire il problema da vari punti. Si è cercato di sostituire il gene mancante con una terapia genica classica ma la difficoltà è che la distrofina è molto grande e quindi non può essere sostituita. Sono tecniche che in altre patologie, come l’atrofia muscolare spinale, hanno avuto successo ma che per la distrofia non si è riusciti a rendere efficaci. Ci sono altri approcci ma nessuno sta dando risultati eclatanti".

"La linea di ricerca che sembra più promettente ha l’obiettivo di andare a modulare il trascritto, cioè l’RNA messaggero che codifica la proteina in modo da correggere il difetto a livello di RNA messaggero. L’idea è togliere la parte di proteina che non funziona e ricucirla per ottenere una proteina un po’ più corta che funziona meglio di quanto non possa fare lasciandola con il pezzo che ha il difetto. Teoricamente si potrebbe trasformare un paziente con distrofia di Duchenne ad esito mortale in un paziente con distrofia di Becker. Questo approccio sta andando benissimo sul topo, sull’uomo invece sono emersi vari problemi di natura tecnica e ci si sta lavorando da tanti anni. Il fatto è che se una terapia funziona ci mette poco a passare dal laboratorio al letto del paziente. Quando questo passaggio non è così veloce vuol dire che c’è qualcosa che non sta andando per il meglio", chiarisce Salviati.

Questo tipo di approccio, come quello che si concentra sul favorire la rigenerazione muscolare, finora non ha però dato risultati veramente significativi. Inoltre non dobbiamo dimenticare che tra le patologie che siamo in grado di curare si è visto che nella maggioranza dei casi l’efficacia della terapia è inversamente proporzionale alla quantità di danno presente nel tessuto affetto: se abbiamo un muscolo molto compromesso sarà difficile che anche un’ottima terapia possa funzionare. Si tratta quindi di terapie che hanno speranza di funzionare soprattutto nelle fasi iniziali della malattia".

Proprio nei giorni scorsi uno studio italiano pubblicato sulla rivista Molecular Therapy Nucleic Acids ha applicato le potenzialità del metodo CRISPR-Cas9 nel tentativo di sviluppare una terapia genica con cui correggere la mutazione che provoca la distrofia miotonica di tipo 1 (la più comune tra gli adulti, con 1 caso ogni 5.000 individui). La ricerca è però ancora in una fase preclinica ed è stata condotta utilizzando cellule in coltura derivate da pazienti affetti da DM1 e un modello murino che mostra diverse caratteristiche della malattia.

"In questi anni gli sforzi sono stati tantissimi e sono state proposte decine di approcci terapeutici. I ricercatori tendono a essere estramamente entusiasti perché è il loro lavoro e l’idea di passare da una situazione in cui non c’è nessuna soluzione a una in cui si intravede una possibilità rappresenta un enorme passo avanti. Molto spesso però è difficile spiegare ai pazienti che un nuovo farmaco o un trattamento non li guarirà dalla loro patologia: magari staranno un po’ meglio o sarà possibile rallentare o al massimo bloccare la progressione della malattia ma in questo momento non esiste nulla che abbia degli effetti miracolosi, il cui effetto sia paragonabile a quello degli antibiotici sulle malattie infettive. Quando si fa comunicazione e divulgazione su questi aspetti è sempre difficile conciliare la correttezza dell’informazione con il fatto di non creare aspettative impossibili ed eccessivi entusiasmi nei pazienti", conclude il professor Salviati.

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