Il presidente degli Stati Uniti alla Casa Bianca dopo aver firmato le sanzioni contro l'Iran
"I ricercatori iraniani si aspettano che i loro colleghi e le comunità scientifiche di altri paesi siano più attivi nel pronunciarsi contro l’impatto che le sanzioni degli Stati Uniti stanno avendo sul loro lavoro”. Chi parla è Vahid Ahmadi, direttore del National Research Institute for Science Policy di Teheran. La sua voce è raccolta dalla rivista scientifica inglese Nature.
Ahmadi riconosce che le sanzioni imposte da Donald Trump a partire dal 5 novembre 2018 stanno avendo effetto. E la conferma viene da Ali Gorij, che oltre a lavorare in Germania presso l’università di Münster, ha fondato lo Shefa Neuroscience Research Center nella capitale iraniana e il Razavi Neuroscience Research Center a Mashhad. Gorij sostiene che le attività di ricerca in questi istituti in Iran sono allo stremo. Il potere di acquisto della moneta locale si è ridotto a un terzo in un anno e non è più possibile acquistare neppure i reagenti necessari alle pratiche di laboratorio.
Si aggiunga a questo che i viaggi all’estero degli scienziati iraniani è fortemente limitato – più negli USA che in Europa, per la verità. Infatti l’Iran continua ad avere una collaborazione intensa con il CERN di Ginevra e altre istituzioni scientifiche non americane – e si comprende come gli scienziati iraniani siano seriamente preoccupati di restare fuori dal grande gioco internazionale della scienza.
La preoccupazione non riguarda solo i ricercatori impegnati a un qualche titolo nella ricerca nucleare, ma tutti.
Come si sa, Donald Trump il 5 novembre 2018 ha denunciato il Joint Comprehensive Plan of Action, firmato nel luglio 2015 dall’amministrazione di Barack Obama (oltre che da Russia e Unione Europea) in base a un accordo che prevede la rinuncia dell’Iran a sviluppare l’arma nucleare in cambio del riconoscimento del diritto a sviluppare il nucleare civile.
Trump considera questo accordo troppo morbido con Teheran e intende negoziarne un altro. Per esercitare pressioni in tal senso ha imposto durissime sanzioni.
I risultati finora ottenuti sono minimi. L’Iran per tutta risposta ha dichiarato di voler andare avanti nell’arricchimento dell’uranio, restando sotto la soglia di utilizzo militare.
Intanto, però, gli effetti delle sanzioni americane si fanno sentire sull’economia e sulla società iraniane, compresa la comunità scientifica. Che si lamenta e chiede la solidarietà attiva dei ricercatori di tutto il mondo.
Non entriamo nel merito dei fattori geopolitici che stanno determinando questa vicenda. Diciamo solo che la politica delle sanzioni rischia di frenare in maniera significativa la crescita, molto rapida, della scienza in Iran. Che in pochi lustri si è imposta come la più importante del Medio oriente – seconda solo per qualità, ma non per quantità – a quella di Israele.
Da alcuni anni, per esempio, l’Iran si è posizionato al primo posto in Medio Oriente e al sedicesimo nel mondo per numero di articoli scientifici pubblicati su riviste internazionali con peer review. Nel 2018 gli articoli firmati da scienziati iraniani sono stati 54.915, più di quelli della Turchia che è il secondo paese del Medio Oriente nella classifica dei paesi che pubblicano di più.
Dieci anni prima gli scienziati iraniano avevano pubblicato 19.507 articoli e si erano collocati al 22° posto nel mondo. Ancora dieci anni prima, nel 1998, gli iraniani avevano pubblicato solo 1.208 articoli, il che li collocava al 51° posto nel mondo.
La crescita della scienza iraniana è evidente e, per molti versi, clamorosa. Foriera di un possibile ammodernamento del paese in termini quanto meno tecnologici ed economici.
Ora tutto questo sembra essere messo in discussione. La scienza in Iran potrebbe tornare indietro. A chi giova un simile risultato? Forse a nessuno.