SCIENZA E RICERCA
Demenza senile: l’urgenza di trovare una terapia

Parigi, Museo del Louvre. Terapia d'arte per persone sofferenti di Alzheimer. Foto: Patrick Zachmann
Tra 40 anni potrebbero essere 277 milioni gli anziani non autosufficienti nel mondo, contro i 101 di oggi. E circa la metà soffrirà di demenza: un valore tre volte superiore a quello odierno secondo le stime del rapporto The global impact of dementia 2013-2050. Gli attuali 44 milioni di malati saliranno infatti a 76 nel 2030 e a 135 nel 2050, con una concentrazione nei paesi in via di sviluppo dove spesso le strutture sanitarie sono inadeguate. Il costo globale per l’assistenza è di 604 miliardi di dollari l’anno di cui l’80% nei paesi industrializzati. Per affrontare l’emergenza in questi giorni i membri del G8 (Francia, Italia, Germania, Russia, Regno Unito, Stati Uniti, Giappone, Canada) si sono riuniti a Londra per definire linee di indirizzo con cui affrontare quella che è stata definita una priorità di salute e politica pubblica. Risultato: l’impegno a individuare entro il 2025 una cura o una terapia che modifichi il decorso della malattia. Che significa aumentare i finanziamenti alla ricerca e il numero di studiosi coinvolti, garantendo il libero accesso ai risultati.
“L’elevato numero dei casi di demenza senile previsto per i prossimi anni – sottolinea Sara Mondini, docente del dipartimento di psicologia generale dell’università di Padova – è dovuto sicuramente all’aumento della popolazione anziana e al fatto che le cure sanitarie permettono di vivere più a lungo, ma anche a indagini sempre più raffinate ed efficaci con cui riconoscere i primi segni della malattia”. Tra le varie forme di demenza, l’Alzheimer è la più diffusa e rappresenta il 50-60% dei casi. Si manifesta solitamente dopo i 70 anni con difficoltà a ricordare fatti recenti, ad apprendere nuove conoscenze e ad organizzare la propria giornata, fino all’incapacità nelle fasi più gravi e avanzate di alimentarsi e camminare. Molto più raramente insorge prima dei 60 anni: in queste circostanze possono concorrere fattori di tipo genetico e il decorso della malattia è molto più rapido. “Da poco più di dieci anni in Italia – continua Sara Mondini – il ministero della Salute ha istituito centri specifici per la diagnosi e la cura della patologia, le unità di valutazione dell’Alzheimer – ndr oggi peraltro al centro di un processo di riorganizzazione – in cui il paziente è seguito da équipe composte da geriatri, neurologi, psichiatri, psicologi, infermieri e fisioterapisti”.
Si tratta di centri che da un lato si prendono cura del paziente in collaborazione con il medico di medicina generale, le strutture territoriali e i servizi di assistenza domiciliare, dall’altro danno sostegno anche alla famiglia. “Non si deve sottovalutare l’impatto che una diagnosi di questo tipo può avere sui familiari che si trovano a convivere con una persona che non è più la stessa e diventano responsabili di tutto ciò che accade. Senza contare le difficoltà organizzative e le conseguenze, talora anche economiche, nella gestione domestica”. Il malato vive in famiglia per larga parte della malattia o almeno fino a quando le sue condizioni, o lo stress familiare, non rendono necessario rivolgersi a strutture assistenziali territoriali.
Alle famiglie, dunque, si insegna come comportarsi con il paziente: capire che il coniuge non ha più le stesse capacità e agire di conseguenza migliora il clima familiare, perché anche il malato è più tranquillo e non si sente inadeguato. In proposito il World Alzheimer Report 2013 non manca di sottolineare la necessità di dare maggiore sostegno proprio a chi si prende cura del malato. Obiettivo da raggiungere secondo Gabriella Salvini Porro, presidente di Federazione Alzheimer, che lamenta la mancanza di un piano di azione nazionale, creare una rete di servizi e assistenza su tutto il territorio nazionale per non lasciare soli malati e familiari. “Fortunatamente – aggiunge Mondini – il tessuto sociale è molto vivace. Esistono gruppi di famiglie che si incontrano, discutono e si scambiano informazioni, grazie anche alla presenza sul territorio di associazioni come Aima”.
Se questi sono gli effetti, vien da chiedersi se esista un modo per ritardare il più possibile l’insorgere della patologia. “Studiare, leggere, andare a teatro, al cinema, fare sport, viaggiare, ascoltare musica”. Suggerisce Sara Mondini. Che significa aumentare la nostra “riserva cognitiva”. È stato dimostrato infatti che quante più competenze, abilità, conoscenze il nostro cervello accumula nel corso della vita, tanto più è protetto dallo sviluppo di patologie degenerative. “Ciò non significa che un intellettuale non possa ammalarsi di Alzheimer, ma che i sintomi emergono più tardi, perché parte da una riserva cognitiva elevata”. Come dire, se possiedo molto ci impiego più tempo a perderlo. E negli ultimi anni, grazie a uno studio condotto da Massimo Nucci, Daniela Mapelli e Sara Mondini, è possibile anche quantificare le attività svolte nel corso della vita, cioè misurare in modo standardizzato la risorsa cognitiva di una persona attraverso un questionario, il cognitive reserve index utilizzato già in molte cliniche. Uno strumento che risulta utile sia nella diagnosi delle demenze che, in una fase successiva, per monitorare il decorso della malattia.
Monica Panetto