SCIENZA E RICERCA
Demenza senile, nuovi studi sull'incidenza

Tutte le forme di demenza senile, Alzheimer compreso, da quarant’anni a questa parte sono in netta e costante diminuzione. Dal 1975 l’incidenza di queste malattie diminuisce al ritmo del 20% ogni decennio. Almeno negli Stati Uniti d’America. Lo documentano, in un articolo pubblicato su The New England Journal of Medicine, Sudha Seshadri e un gruppo di suoi collaboratori del Boston University Medical Center. Che ammettono: non sappiamo perché.
Sudha Seshadri e i suoi hanno preso in esame 5.205 persone di 60 o più anni che partecipano al Framingham Heart Study, un progetto di ricerca sulle malattie cardiache attivo fin dal 1948. Di tutte queste persone hanno analizzato non solo le condizioni di salute, ma anche quelle socio-economiche e culturali. Ottenendo una serie di risultati, calibrati secondo le più aggiornate tecniche statistiche, solo in parte inattesi.
Tra il 1975 e il 1984, il 3,6% delle persone di età superiore ai 60 anni soffriva di demenza senile. Il tasso è sceso al 2,8% tra il 1985 e il 1994 (-22%); al 2,2% tra il 1995 e il 2004 (-38%) e, infine, al 2,0% (-44% rispetto al 1975) tra il 2005 e il 2014. In quarant’anni, dunque, l’incidenza della demenza senile si è quasi dimezzata.
La notizia della diminuzione dell’incidenza della demenza senile – considerata uno dei più grandi flagelli nell’era della crescita della popolazione anziana – è estremamente positiva. Certo, il campione non è perfetto. Prende in maggiore considerazione la popolazione bianca, che non quella delle altre etnie presenti in America. Ma i risultati non sono inattesi. La diminuzione dell’incidenza non riguarda solo gli Stati Uniti. Andamenti simili sono stati documentati anche in Australia e in Europa (in Finlandia, in particolare).
La diminuzione dell’incidenza non ha impedito l’aumento in termini assoluti del numero di malati. E non lo impedirà in futuro. I cittadini Usa di età superiore ai 65 anni che soffrono di demenza senile erano 5,1 milioni nel 2015, ma, calcolano gli epidemiologi americani, diventeranno 7,1 milioni (+ 40%) nel 2025 e addirittura 13,8 milioni (+ 171%) nel 2050.
La crescita del numero di affetti da demenza senile riguarderà il mondo intero. Secondo l’Organizzazione mondale della sanità (Oms), i malati passeranno dagli attuali 47,5 milioni sparsi per il pianeta (9,4 milioni nelle Americhe; 10,5 in Europa; 22,9 in Asia e 4,0 milioni in Africa) a 75,6 milioni nel 2030 e a 135,5 milioni nel 2050. Con costi umani incalcolabili, per i malati e per le loro famiglie. Ma anche con costi economici altissimi: si calcola che fra dieci anni nei soli Stati Uniti la spesa per la gestione di tutti questi malati sarà di almeno 1.100 miliardi di dollari (più del 6% dell’attuale Prodotto interno lordo Usa). Nel mondo, invece, si spenderanno almeno 2.000 miliardi.
Il paradosso che vede diminuire l’incidenza in maniera drastica e aumentare, in maniera altrettanto netta, il numero assoluto di malati è solo apparente. E può essere spiegato in maniera molto semplice, con il forte aumento della popolazione anziana.
Quello che, invece, è più difficile da spiegare è perché l’incidenza della demenza senile da quarant’anni sta diminuendo. In prima battuta Sudha Seshadri e il suo gruppo rilevano che sta diminuendo l’incidenza di molti (ma non tutti) i fattori di rischio associati alla demenza senile: l’ictus, la fibrillazione atriale, il collasso. Sta invece aumentando l’incidenza di altri fattori di rischio, come l’obesità e il diabete.
È interessante notare che l’incidenza della demenza senile è minima (0,77% contro il 2,0% della popolazione totale) tra le persone che hanno conseguito una laurea o almeno un diploma presso una high school (scuola media superiore). Un segno questo che le attività intellettuali possono impedire o, almeno, rallentare l’insorgenza delle malattie degenerative del cervello.
Nessuna di queste possibili concause è in grado di spiegare la diminuzione dell’incidenza della demenza senile. Ma neppure tenendole tutte in conto si riesce a trovare una spiegazione soddisfacente. Da questa impossibilità possiamo trarre due conseguenze. La prima è che occorre aumentare la ricerca sulla demenza senile: perché ne sappiamo troppo poco. La seconda è che, comunque, la malattia – o meglio, l’insieme delle malattie che definiamo demenza senile – non è senza scampo. È già possibile agire attraverso la prevenzione: l’attività intellettuale, per esempio, sembra essere un’ottima protezione.
La pensa così Sudha Seshadri, che ha dichiarato alla ufficio comunicazione della Boston University School of Medicine: “Attualmente non conosciamo alcun trattamento efficace per la prevenzione o la cura della demenza senile, ma la nostra ricerca offre almeno la speranza che – alcune tipologie di questa malattia possono essere impedite – o, almeno, ritardate – attraverso forme di prevenzione primaria (impedendo al processo degenerativo di partire) o secondaria (impedendo che il processo vada avanti)”.
Se riusciamo a capire, almeno in parte, perché l’incidenza della demenza sta diminuendo potremo aumentare la chance di prevenirla e ridurre anche l’aumento del numero assoluto di malati annunciato per i prossimi decenni. Con enorme riduzione delle sofferenze di decine di milioni di persone e anche dei costi, liberando risorse che potranno essere impegnate in altri settori della sanità.
Pietro Greco