SCIENZA E RICERCA

L'importanza di dire no

“L’ultimo lavoro del mio gruppo, pubblicato poco più di una settimana fa sulla rivista open access PeerJ – scrive sulle colonne di The Guardian Stephen Curry, docente di biologia all’Imperial College di Londra – riporta un risultato inusuale. Non era quello che stavamo cercando, ma un risultato negativo: il nostro esperimento era fallito”. Se si considera che nell’ambito delle riviste scientifiche, diversamente da quanto avviene sui media, a vendere sono soprattutto le buone notizie l’affermazione risulta quantomeno inattesa. Eppure anche i risultati negativi contribuiscono al progresso della scienza, sebbene spesso rimangano nel cassetto di chi ha condotto le ricerche. 

A questo proposito i dati non mancano. Un gruppo di ricerca dell’università di Stanford, per citare uno degli studi più recenti, ha preso in esame 221 progetti di ricerca condotti tra il 2002 e il 2012 nell’ambito del programma Time-sharing Experiments for the Social Science (Tess), dedicato a studi di scienze politiche, sociali ed economiche. Nel 41% dei casi le ricerche dettero risultati positivi confermando le ipotesi iniziali, mentre nel 22% dei casi non si raggiunsero i risultati attesi. Il restante 37% si collocava nel mezzo. Ebbene, solo uno studio su cinque di quanti dettero risultati negativi fu pubblicato e quasi due su tre non presero nemmeno la forma di un articolo.

Se questa è la situazione per le scienze sociali, anche le ricerche in ambito clinico confermano la tendenza. Stando infatti a un’indagine coordinata da Christopher W. Jones e pubblicata sul British Medical Journal, su 585 studi clinici esaminati 171 non furono pubblicati (il 29%), per un totale di 299.763 partecipanti. A non essere pubblicati furono soprattutto gli studi finanziati dalle aziende private. 

Il mantra del publish or perish contribuisce a spiegare in buona parte questa situazione. Dai numeri dipende la carriera dei ricercatori, che si tratti di impact factor o H-index. Come dire, più prestigiosa è la rivista su cui si pubblica e maggiore è il numero di citazioni che il lavoro guadagna meglio è. Risultati particolarmente significativi pubblicati su riviste di primo piano del panorama internazionale accrescono la reputazione di uno scienziato e tendono anche ad attrarre finanziamenti. Al contrario, quale azienda sarà disposta a pagare uno studioso noto per aver condotto ricerche che non hanno portato ad alcun risultato? Senza contare che si tratta di lavori destinati a non essere citati molto dalla comunità scientifica. Anche le riviste scientifiche giocano la loro parte, privilegiando la pubblicazione di nuove scoperte e ricerche particolarmente significative, allo scopo di coltivare la propria reputazione. 

Fatte queste premesse è facile intuire la ragione per cui un ricercatore spesso non inizi nemmeno a scrivere un lavoro che abbia dato risultati negativi. La tendenza infatti è di concentrasi su altri progetti o di proseguire su  strade diverse per tentare di confermare le ipotesi iniziali.      

Eppure gli esperimenti non riusciti hanno la loro ragion d’essere. Ne è convinto Giulio Peruzzi delegato alla comunicazione della cultura scientifica e alle attività museali dell’università di Padova. “Anche i risultati “negativi” della scienza, quelle ricerche cioè che ottengono come risultato di non osservare ciò che si pensava di osservare secondo le previsioni della teoria, dovrebbero essere divulgati. E chi si occupa di comunicazione scientifica in particolare dovrebbe renderne conto”. I media al contrario preferiscono il frastuono della “scoperta”, ma in questo modo tradiscono la scienza che invece va avanti per tentativi. Peruzzi fa un esempio. Albert Abraham Michelson e Edward W. Morley negli anni Ottanta dell’Ottocento condussero un esperimento per verificare l’esistenza di un particolare modello di etere, quello in quiete assoluta. Secondo le teorie dell’epoca l’etere era il mezzo imponderabile di cui le onde luminose avrebbero avuto bisogno per propagarsi, in analogia con il ruolo svolto dall’aria per la propagazione delle onde sonore. Risultato: lo studio non dimostrò affatto l’ipotesi di partenza. Pubblicato comunque su The American Journal of Science con il titolo On the Relative Motion of the Earth and the Luminiferous Ether, costituì un contributo importante per gli sviluppi successivi della fisica che portarono poi alla teoria della relatività ristretta di Albert Einstein. Gli esempi potrebbero continuare, come nel caso delle misure del momento magnetico del neutrino. “Un esperimento negativo – sottolinea Peruzzi – riorienta la ricerca e indirizza verso un’altra strada che può condurre a teorie importanti”.  

A ciò vanno aggiunti anche altri fattori. Sapere che uno studio è già stato condotto e non ha portato ai risultati attesi consentirebbe ad altri gruppi di ricerca, che magari lavorano sullo stesso argomento, di non ripetere i medesimi esperimenti con un conseguente risparmio in termini di tempo e di denaro. In secondo luogo nel caso in cui altri ricercatori avessero condotto ricerche simili a quella non pubblicata giungendo a risultati differenti, si verrebbe a costituire un corpo di conoscenze distorto e non completo su quello specifico tema. Quando si tratta di studi clinici, poi, esistono anche obblighi etici. I partecipanti, sottolinea nel proprio lavoro il gruppo di Christopher W. Jones, si espongono ai rischi di procedure non ancora validate e la giustificazione etica è che la società possa beneficiare delle conoscenze acquisite nel corso dell’indagine.  

Oggi la tendenza è di favorire maggiormente la divulgazione anche dei risultati negativi della scienza. Qualche esempio. Riviste come il Journal of Cerebral Blood Flow and Metabolism dedicano una vera e propria sezione a questo tipo di argomento: nella copia cartacea trova posto una sintesi della ricerca, mentre l’articolo completo viene pubblicato on line. Plos One, giornale open access, ha recentemente lanciato una nuova collezione dal titolo Missing Pieces, con esplicito riferimento a quegli studi che hanno dato risultati negativi e che sono stati dunque archiviati ed esclusi dal panorama scientifico.  

“Tutto ciò – conclude Peruzzi - per correggere anche l’idea errata che la scienza proceda solo attraverso esperimenti con esiti positivi e risultati di successo. Ma la ricerca scientifica è soprattutto costanza quotidiana, fatta di tentativi su tentativi, dove qualunque risultato serio e riproducibile, positivo o negativo, svolge un ruolo fondamentale”.

Monica Panetto


© 2025 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012