SOCIETÀ

Beni comuni e società senza Stato

La categoria dei “beni comuni” gode al momento di florida fama e grande diffusione, tanto nel campo editoriale quanto in quello politico, dalla consacrazione del 2011 con la vittoria dei referendum sui beni comuni appunto (in quel caso: acqua e energia sostenibile) alle travagliate elezioni 2013, con le quali sono entrati nel nome di più d'una lista, con alterne fortune e sfortune. Torna dunque utile la lettura di un saggio che dei beni comuni – termine mutuato dai commons anglosassoni, ma non esattamente sovrapponibile - vuole analizzare la filosofia, ripercorrendo l'evoluzione del concetto e le ragioni del suo successo, ma anche i suoi limiti, le sue ambiguità, i suoi rischi: primo tra tutti quello di mettere in piedi una mistica dei beni comuni stessi.

È quel che fa Laura Pennacchi, economista, saggista nonché protagonista, in un recente passato, della scena politica (è stata sottosegretario all'economia nel primo governo Prodi), in un libro da poco uscito per Donzelli, nel quale muove un attacco su un doppio fronte. 

Da un lato, c'è la critica al tripudio del “privatismo”: al pensiero economico che ha dominato l'ultimo trentennio, guidato dall'esaltazione del mercato come meccanismo di regolazione e distribuzione universale, e dalla riduzione della società e della politica a sue ancelle. Dall'altro, c'è l'attacco a quella che Pennacchi definisce “la mistica del bene comune”: la tendenza a rifugiarsi in modelli di comunità un po' chiusi ed escludenti, nel fascino di tendenze antimoderniste, o nel miraggio di una sfera pubblica completamente autonoma dalla mediazione istituzionale. È giusto, scrive Laura Pennacchi, seppellire il modello dell'homo oeconomicus sotto le scartoffie svolazzanti della Lehman Brothers e le macerie lasciate dal fallimento di quell’idea: considerare la società come una somma di individui, ciascuno dedito esclusivamente a farsi gli affari propri, è un errore concettuale e storico, spiega e dimostra l’autrice. Però, aggiunge, non possiamo buttare a mare tutto quello che, dalla rivoluzione dell'illuminismo in poi, intendiamo con “libertà dell'individuo”: che è anche libertà di entrare in relazione, farsi corpo sociale, costruire e vivere le sue istituzioni. Ed è questo invece, scrive Pennacchi, il rischio che si corre rincorrendo un ideale comunitario fatto di adesione a un'identità (magari cementata, appunto, sull'esistenza di un bene comune da difendere, come l'acqua o l'aria o il parco di quartiere), e non di continua tessitura di relazioni, mediazioni, capitale sociale.

È un recupero forte dei princìpi dell'illuminismo e della modernità, quello che Laura Pennacchi fa nel suo libro: dentro la modernità, scrive, “ci sono gli elementi e le dinamiche che hanno portato all'ingresso dei diritti sociali nelle democrazie nel '900”. E dentro la modernità si sono diverse concezioni dell'individuo: c'è il filone che poi sarebbe sfociato nell'individualismo metodologico del liberismo (con tutti i suoi danni), ma c'è anche quello della fraternità (la categoria meno frequentata della triade della rivoluzione francese) e l'individualismo democratico. In questi altri filoni, l'individuo è portatore di identità plurime, è “segnato dall'essere con l'altro”. Ne deriva una concezione della sfera pubblica necessariamente complessa, plurale e attenta alla necessità di strutture che le diano stabilità e apertura, rivalutando – cosa poco di moda, al momento – il ruolo “terzo” delle istituzioni, dello Stato.

È in tale contesto che va dunque inquadrato quel che dovrà essere il nuovo intervento pubblico, che Pennacchi auspica come risposta al fallimento del modello che ci ha portato fin qui. Non a caso, scrive l'autrice, il recupero dell'intervento pubblico in economia, fatto in emergenza e per necessità sotto i primi colpi della crisi, ha preso la forma di un “keynesismo privato”, buono con i forti (le banche, la finanza) e cattivo con i deboli. Di contro, Pennacchi propone una forma aggiornata e rinnovata di keynesismo, nella quale le politiche della domanda e dei consumi collettivi prendano come orizzonte strategico “beni sociali, beni comuni, green economy”. Forse si può semplificare così: il “comune” non come ricetta universale, ma come ingrediente per un nuovo patto sociale, e nuova linfa per una “sfera pubblica” che è più larga di quella dello Stato, ma che non può prescindere da questo. Un approccio che, in tempi di crisi economica (che ha svuotato le casse dei governi) e politica (con la marea montante contro gli “eletti” nelle istituzioni, e il loro tramite tradizionale, ossia i partiti), di certo non è comodo né popolare. Ma che certamente chiede e merita di essere discusso, ponendo temi cruciali all'ordine del giorno.

Roberta Carlini

Laura Pennacchi, Filosofia dei beni comuni. Crisi e primato della sfera pubblica. Donzelli, 2012

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