SOCIETÀ
Compri casa? Sì, al costo di un caffè

Salemi, una delle case messe in vendita nel 2008 a un euro. Foto: Alessandro Imbriaco/Contrasto
Case in vendita al prezzo di un caffè. In Sicilia, Piemonte, Umbria, Abruzzo. A partire dallo scorso anno la notizia è rimbalzata all’estero ed è stata recentemente ripresa da diverse testate, soprattutto inglesi. Che proprio in Gran Bretagna la notizia generasse grande sorpresa c’era da aspettarselo, vista la consuetudine d’oltremanica d’investire sul mattone italiano; un’abitudine che, anche se diminuita negli ultimi anni (si va dal 38% della quota di mercato nel 2005 al 14% di fine 2013), rappresenta una componente estera importante delle nostre vendite immobiliari, a pari merito con quella russa e seconda solo a quella determinata dagli investitori tedeschi (il 43% degli acquisti alla fine del 2013).
Di svendere le case a un prezzo irrisorio c’hanno pensato per primi i siciliani di Salemi, una cittadina che si andava pian piano svuotando già dal terremoto del Belice del 1968. Si svuotavano le sue case, che si trasformavano in ruderi lasciati all’abbandono o all’incuria, anche per l’impossibilità (o il disinteresse) di sostenere le spese per il loro recupero. Al prezzo di un euro si sarebbe così potuto entrare in possesso di un’abitazione, con l’obbligo però di sostenere le spese per restaurarla. Ma il richiamo di Salemi, commissariata più tardi per infiltrazioni mafiose, cadde forzatamente nel vuoto.
La stessa idea venne adottata allora da un altro comune siciliano in via di spopolamento, Gangi, che offrì di cedere gratuitamente alcune abitazioni contadine, con il vincolo per il nuovo possessore di pagare le spese per il passaggio di proprietà e di restaurare l’immobile entro tre anni. Anche a Gangi la proposta sembrò non funzionare, ma a partire dal 2011 il suo modello, celebrato recentemente dal New York Times, iniziò ad avere successo, e oggi sono migliaia le richieste provenienti da tutto il mondo, un centinaio i contratti firmati e qualche decina le ristrutturazioni già completate. Gangi è ora nella lista dei 100 borghi più belli d'Italia e nel 2014 ha ottenuti il titolo di “Borgo dei borghi”.
Chi, straniero, non intenda investire nel mattone ma desideri comunque trascorrere il tempo di una vacanza in Italia, sempre più spesso sceglie l’esperienza dell’albergo diffuso, offerta da interi borghi trasformati in hotel, dove può assaporare il gusto edulcorato del vivere “all’italiana”, più o meno autentica. In questo senso, il borgo medievale di Santo Stefano di Sessanio, in provincia dell’Aquila, è uno dei casi più riusciti. Antica dimora di pastori e agricoltori, a 1.200 metri di altitudine nel cuore del parco nazionale del Gran Sasso, aveva patito lo spopolamento fin dall’alba dell’unità d’Italia. Quando nel 1999 l’imprenditore italiano di origini svedesi Daniele Kihlgren vi capitò per caso in sella alla sua moto, Santo Stefano contava 120 residenti; di molta parte del paese non c’erano che i muri maestri delle abitazioni, pietre millenarie rovinate al suolo ad abbracciare la torre medicea. L’idea di acquistarne le case ormai diroccate per dare nuova vita al borgo e convertirne una parte ad uso turistico divenne realtà in circa cinque anni e diversi milioni di euro, contando però che i costi di partenza dell’esistente si rivelarono molto bassi, visto il cattivo stato di conservazione. Quello che Kihlgren ha realizzato è un albergo diffuso che occupa un quinto del paese medievale: 27 camere e 55 posti letto che si estendono per poco più di una decina di strade e piazze, in altrettante case.
È divenuto albergo diffuso ma anche “borgo telematico” Colletta di Castelbianco, abbandonato gradualmente dopo un terremoto intorno al 1887 e recuperato a partire dagli anni Ottanta grazie a un gruppo di imprenditori e su progetto di Giancarlo De Carlo in un ottica di tutela del patrimonio, ma anche di adeguamento tecnologico. La ricerca del politecnico di Milano “Borghi-reloaded” ha mappato proprio le esperienze come quella di Colletta, ossia di borghi deteriorati e poi riattivati grazie a interventi di recupero. O come quella di Calitri, in provincia di Avellino, il cui centro risultò inagibile in seguito al terremoto del 1980 e venne in parte poi recuperato grazie a sforzi e risorse pubbliche nell’arco di più di un ventennio.
In Italia i paesi che rischiano di rovinare, svuotarsi e sparire sono moltissimi. Parecchi i luoghi ormai disabitati divenuti paesaggi fantasma, testimoni muti di un passato ormai recuperabile solo grazie a investimenti e sforzi enormi. Nelle dolomiti venete il paesino di California venne spazzato via dall’alluvione del 4 novembre 1966, che non lasciò che pochi ruderi di case, semi-inghiottite dalle colate di ghiaia. Il terremoto del 1976 cancellò i borghi friulani di Chiout degli Uomini e di Riulade, la guerra decretò la fine della vita nel borgo fortificato romano di Monterano. C’ è chi tenta un censimento che sbalordisce, tanto è lunga la lista dei paesi fantasma: 15 solo in Sicilia, 14 in Lazio come in Calabria, 12 in Piemonte e altrettanti in Liguria e Lazio. E l’elenco s’allunga, giorno dopo giorno, inesorabilmente. Nel timore o nell’indifferenza.
Chiara Mezzalira