SOCIETÀ

Dal Nepal al Perù: dilagano le proteste della Gen Z

L’ultima scintilla si è accesa lo scorso fine settimana in Perù, nelle vie del centro della capitale Lima, dove centinaia di manifestanti, soprattutto giovanissimi, hanno sfilato in corteo a ridosso degli uffici governativi per protestare contro le politiche del governo guidato dalla presidente Dina Boluarte. Una mobilitazione pacifica, appassionata, indetta dai giovani peruviani del collettivo “Generazione Z” e sostenuta dai sindacati. Una protesta per dire no al crimine organizzato che ormai dilaga in Perù, contro la corruzione che nessuno ostacola (una piaga storica per il paese sudamericano, con 3 ex presidenti attualmente in carcere), contro una repressione sempre più violenta da parte delle forze di polizia, e per contestare una recente riforma delle pensioni che penalizza i più giovani, obbligandoli a iscriversi a un fondo di previdenza privato, a prescindere dal lavoro che svolgono. La polizia di Lima, presente in gran numero, non ha gradito: per fermarli, impedendo loro di superare Plaza San Martín verso la sede del Congresso, ha sparato gas lacrimogeni e pallini di gomma. Almeno 30 i manifestanti rimasti feriti, tra i quali nove giornalisti che stavano seguendo la protesta. L’Instituto Prensa y Sociedad, in una nota, ha condannato l’uso eccessivo della forza da parte della polizia. Domenica scorsa i giovani, circa 500, sono tornati a manifestare: ma si sono trovati di fronte un muro di poliziotti, circa 5mila. E di nuovo ci sono stati scontri, con lanci di pietre e oggetti contro gli agenti che hanno risposto con durezza. Il generale Felipe Monroy, capo della regione di polizia di Lima, a fine giornata ha detto che sono 6 le persone arrestate “per disordini e violenze contro il personale di polizia”, con 19 agenti rimasti feriti, senza però dar conto delle loro responsabilità per il ferimento dei dimostranti e dei giornalisti.  

Questa nuova ondata di proteste sociali in Perù è particolarmente importante per due motivi. Anzitutto perché è l’ennesima riprova della straordinaria impopolarità della presidente Dina Boluarte, 63 anni, una laurea in diritto, una carriera politica tra le fila di Perù Libre, formazione di sinistra, eletta vicepresidente nel 2021 quando Pedro Castillo vinse le elezioni generali, per poi prenderne il posto nel dicembre 2022, dopo l’impeachment (per “permanente incapacità morale”) e l’arresto dello stesso Castillo, che aveva tentato di sciogliere il Congresso. Ma Boluarte non ha mai conquistato la fiducia dei peruviani: immediatamente accusata di aver represso nel sangue le proteste scoppiate proprio tra dicembre 2022 e marzo 2023, in cui furono uccisi oltre 50 manifestanti e un agente di polizia, e di aver comunque “legittimato” un crescente autoritarismo, per non parlare dei sospetti di corruzione e dello “scandalo Rolex” che lo scorso anno l’ha vista protagonista (lei ha sempre giustificato come lecita la provenienza dei 14 orologi di lusso). Fatto sta che oggi il gradimento della presidente Boluarte è appena al 2,5% (il 93,8 dei peruviani esprime un’esplicita disapprovazione del suo operato). Il suo mandato scade a luglio del 2026: le possibilità di una sua rielezione sono pari a zero. 

Dal Nepal allo Sri Lanka 

Ma l’altro aspetto, per certi versi ancor più interessante, è la “matrice” della protesta sociale. Perché i protagonisti sono ragazzi giovanissimi, della “generazione Z” appunto, nati  indicativamente tra la fine degli anni novanta e la prima decade del 2000 (i cosiddetti “nativi digitali”), che hanno sentito la necessità e trovato il coraggio di scendere “fisicamente” in piazza per alzare la loro  voce, di uscire dal ruolo di spettatori passivi, di prendere in mano le loro responsabilità sociali e politiche. Per sopperire all’immobilismo, o peggio all’incompetenza, delle istituzioni e sfidando apertamente l’autoritarismo, la corruzione o la disuguaglianza economica. Ma il fenomeno non riguarda soltanto il Perù. Negli ultimi mesi movimenti analoghi, in contesti non assimilabili ma con un innesco simile, sono emersi anche in diversi paesi asiatici. In Nepal, all’inizio di questo mese, una rivolta popolare, sempre guidata e alimentata dai più giovani, ha portato alle dimissioni del primo ministro Sharma Oli. A scatenare la protesta era stata inizialmente la decisione del governo di vietare l’utilizzo di 26 piattaforme di social media (da Facebook a WhatsApp, da YouTube a X) che non si erano ancora registrate presso le autorità locali. I dimostranti erano stati però respinti con sempre maggiore violenza dalle autorità locali (l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Turk, ha chiesto un’indagine sulle uccisioni e sulle denunce per “uso sproporzionato della forza” da parte delle forze di sicurezza nepalesi), e questo ha trasformato quella protesta in rabbia, in un più ampio movimento di massa contro la corruzione diffusa tra le élite politiche. E il bilancio, purtroppo, è diventato drammatico: a Kathmandu, la capitale, i morti sono stati 72, con oltre duemila feriti. Diversi edifici governativi, dal palazzo del Parlamento alla Corte Suprema, sono stati incendiati, così come le abitazioni private di esponenti politici, compresa quella Ramchandra Paudel e dell’ormai ex primo ministro Oli. L’insediamento al suo posto della ex presidente della Corte Suprema, Sushila Karki, ha riportato una calma relativa.  

Stop a privilegi e disuguaglianze 

Ma ancor prima del Nepal c’erano stati altri episodi di rilievo. Nel 2022 un’ondata di proteste, guidate principalmente dai più giovani, esasperati da una gravissima crisi economica, aveva travolto lo Sri Lanka portando alle dimissioni del presidente (Gotabaya Rajapaksa, leader dell’omonimo clan, poi fuggito dal paese), di suo fratello Mahinda Rajapaksa, che svolgeva funzioni di primo ministro, e di un altro fratello, Basil Rajapaksa, ex ministro delle Finanze. Una rivolta popolare che nel 2024 ha portato all’elezione di Anura Kumara Dissanayake, leader del National People’s Power, partito di sinistra che mai, negli ultimi decenni, era riuscito a conquistare un ruolo predominante nella politica del paese. Un voto di protesta quindi, di rottura con il passato. E finora il nuovo presidente non ha deluso le aspettative. I vantaggi e i privilegi di cui hanno goduto per decenni i politici, come incentivi, indennità, diritto a residenze di lusso, sono stati ridotti o cancellati. I politici non possono più inserire loro familiari all’interno delle istituzioni pubbliche, pratica assai diffusa in passato. Mentre diversi ex funzionari pubblici sono finiti sotto inchiesta per corruzione. Due anni dopo è stata la volta del Bangladesh, di nuovo con gli studenti a dare voce e corpo ai cortei di protesta. Luglio 2024: migliaia di giovani si riversano in piazza per chiedere la riforma del sistema che assegnava le quote per le assunzioni nel settore pubblico. Tempo due settimane e la premier Sheikh Hasina (che poi fuggirà in India) ordina alle forze di polizia di reprimere con ferocia i dimostranti. Il bilancio è una carneficina: oltre 1400 morti. Ma un anno dopo, nonostante il cambio di governo (ora c’è un’amministrazione guidata dal premio Nobel Muhammad Yunus, che ha promesso di tenere nuove elezioni il prossimo anno, probabilmente ad aprile), la situazione non è migliorata: il Bangladesh resta impantanato nell’instabilità, con i partiti politici che litigano sulla data delle elezioni. Secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, circa il 30% dei giovani del Bangladesh non ha un lavoro, non studia e non frequenta corsi di formazione (e oltre il 60% della popolazione ha meno di 35 anni). Aishwarya Sanjukta Roy Proma, ricercatrice associata presso il BRAC Institute of Governance and Development, ha riassunto così la situazione attuale: «Nel luglio 2024, i giovani del Bangladesh hanno scatenato una rivolta democratica, con una visione condivisa di giustizia e riforme. Eppure a un anno di distanza da questo momento di trasformazione, è emerso un paradosso preoccupante: la stessa generazione che ha alimentato questo cambiamento viene sistematicamente messa da parte. Questa esclusione non solo minaccia di soffocare l’energia democratica della rivolta, ma rischia anche di erodere le vivaci innovazioni civiche che i giovani hanno a lungo sostenuto».  

Infine le Filippine, e siamo alla cronaca dello scorso fine settimana, quando circa 130mila manifestanti (anche qui trainati dagli studenti) hanno invaso le strade di Manila per protestare contro la corruzione dilagante, contro i privilegi dei politici, contro le disuguaglianze sempre più sfacciate. Mentre anche a Timor Est sono scoppiate proteste studentesche dopo la decisione del governo di fornire “nuovi veicoli Suv Toyota Prado” a tutti i 65 membri del Parlamento, per una spesa superiore ai 4 milioni di dollari. Parlamentari che comunque hanno già stipendi dieci volte superiori al reddito medio del paese. Dopo le proteste, il progetto è stato accantonato. Secondo Chietigj Bajpaee, ricercatore senior per l’Asia meridionale presso il centro studi britannico Chatham House, i movimenti guidati dai giovani in Nepal, Indonesia, Bangladesh e Sri Lanka hanno messo in luce «diverse sfide strutturali che i paesi della regione devono affrontare. Il che evidenzia disfunzioni politiche con governi che non sembrano rispondere alle loro popolazioni più giovani e ambiziose, tra difficoltà economiche e pressioni demografiche». 

Intanto c’è chi ha paragonato le rivolte popolari giovanili asiatiche alle primavere arabe del 2010-2011. «Entrambi i movimenti sono stati in gran parte guidati da giovani frustrati dalla disoccupazione, dalla corruzione e da governi autoritari», scrive Jayanth Giacobbe, giornalista del New Indian Express. «Ed entrambi hanno sfruttato gli strumenti digitali e i social media per organizzare e diffondere il loro dissenso. Tuttavia ci sono anche differenze fondamentali. La primavera araba è stata segnata da un’ondata di crolli di regimi autoritari, ma anche da prolungati conflitti violenti e guerre civili, in particolare in Libia e in Siria. Al contrario, le proteste in Bangladesh e Nepal, anche se occasionalmente violente, si sono concentrate principalmente sulla mobilitazione di massa e sulla pressione politica diretta che ha portato a un cambio di regime o a significative concessioni governative». Ora è la volta del Sud America: a breve capiremo se anche in questa porzione di mondo la Gen Z, con la sua capacità di mobilitarsi rapidamente, con i suoi temi cardine (giustizia sociale, lotta alla corruzione e al nepotismo, rispetto climatico) sarà in grado di guidare un processo di cambiamento.  

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