SOCIETÀ
Grandi opere: la legge sugli appalti ha aperto la falla

Uno dei cantieri del MOSE. Foto: Stefano Dal Pozzolo/Contrasto
Cosa rende possibile il malaffare, al di là dell'avidità e della disonestà dei singoli? La domanda sorge spontanea, non appena ci si fermi a riflettere un momento, di fronte ai capi d'accusa delle ultime indagini sulle grandi opere. E mentre con le inchieste sull'Expo di Milano ancora in pieno svolgimento, la presunta corruzione nella gestione del progetto MOSE - la “grande opera” che dovrebbe difendere la città lagunare dall’acqua alta - riempie le cronache, sembra quanto mai di attualità un libro che ha ormai quasi 10 anni e segue ricerche iniziate fin dai tempi di Tangentopoli, a inizio anni Novanta.
La ricerca in questione è “Le grandi opere del Cavaliere”, di Ivan Cicconi – ingegnere ed esperto di infrastrutture e lavori pubblici, già capo della segreteria tecnica del ministro dei Lavori Pubblici Nerio Nesi nel governo Amato (1992-1993). Il suo pregio: analizzare specificamente i meccanismi di legge in materia di lavori pubblici per individuare le "falle" che consentono alla corruzione di trovare spazio. Analisi che, a distanza di due lustri, lo stesso autore ritiene tutt'ora valide, sottolineando le specificità del caso MOSE.
Andiamo con ordine: innanzitutto, quali e quante sono le “grandi opere”? Punto di partenza, la delibera n. 121 del 21 dicembre 2001 del CIPE, il Comitato interministeriale per la programmazione economica, che ne individua 220. Un lunghissimo elenco nato dal confronto tra l'allora ministro incaricato delle Infrastrutture, Pietro Lunardi, e i rappresentati delle Regioni, che Il Dpef (il documento di programmazione economica e finanziaria del Governo) stilato dal successivo ministro Di Pietro ridefinisce secondo alcuni criteri di priorità indicando le 21 opere «di serie A». Fra queste, con l’Alta velocità ferroviaria, una serie di strade e autostrade, valichi ferroviari principali e interventi idrici al Sud, anche il sistema MOSE.
Quale il modello finanziario e contrattuale alla base delle “grandi” opere? Secondo l'analisi di Cicconi, è quello codificato da due leggi fondamentali. La prima è la cosiddetta legge Obiettivo (L. 433/2001), che interpreta la procedura europea di appalti ed introduce nel sistema normativo italiano la figura del general contractor o contraente generale. Si tratta di un soggetto unico al quale è affidata la "realizzazione delle infrastrutture strategiche". Il contraente generale - recita il testo di legge - "è distinto dal concessionario di opere pubbliche per l'esclusione dalla gestione dell'opera eseguita ed è qualificato per specifici connotati di capacità organizzativa e tecnico-realizzativa, per l'assunzione dell'onere relativo all'anticipazione temporale del finanziamento necessario alla realizzazione dell'opera in tutto o in parte con mezzi finanziari privati, per la libertà di forme nella realizzazione dell'opera, per la natura prevalente di obbligazione di risultato complessivo del rapporto che lega detta figura al soggetto aggiudicatore e per l'assunzione del relativo rischio".
Proprio qui, nota oggi Cicconi, sorgono i primi problemi, perché nella legislazione europea sono chiaramente distinte due modalità differenti per l'esecuzione di lavori di pubblico interesse. L'appalto, nel quale finanziamento e responsabilità progettuale sono in carico al pubblico, mentre la realizzazione è in capo al soggetto privato incaricato dei lavori a fronte di un corrispettivo versato dal committente pubblico e definito in sede di gara, in primo luogo. E la concessione, nella quale il soggetto privato gode di un pieno trasferimento di poteri, assumendosi responsabilità e rischi finanziari, progettazione e scelta delle imprese compresa, in cambio di un corrispettivo derivante dalla gestione dell'opera per un determinato periodo (per es, le tariffe di un parcheggio interrato realizzato) e dell'assunzione dei rischi di mercato a questo collegati – corrispettivo eventualmente affiancato da un parziale remunerazione pubblica dei costi di realizzazione - nel secondo. Uno schema rispetto al quale la figura giuridica del contraente generale, esclusivamente italiana, si pone - a parere dell'autore - come un ibrido assolutamente anomalo.
La seconda, che è anche alle radici dell'anomalia di cui sopra, è la legge delega sulle infrastrutture (L. 166/2002), che stravolge la precedente legge Merloni sui lavori pubblici – la 109/94, nata proprio per dare una risposta alle malversazioni emerse con Tangentopoli - e introduce il concetto di project financing. Saltano qui, in particolare, due vincoli–chiave che la Merloni prevedeva per le concessioni, cui il general contractor può essere in larga parte assimilato: il limite di 30 anni e il tetto del 50% per la copertura diretta e non derivante dalle tariffe – ovvero quella definizione di limiti di durata e copertura che per il legislatore europeo pongono il concessionario sotto il controllo del mercato.
Per l'autore, in tal modo il general contractor progetta e costruisce l’opera in autonomia, ma senza rischio alcuno: non ha necessità di far rientrare le spese effettuate per la costruzione perché sono interamente pagate e garantite dallo Stato. Dunque, può tendenzialmente far durare a lungo i lavori e far lievitare i costi senza alcuna perdita. Inoltre il general contractor, a differenza del concessionario tradizionale di lavori o di servizi pubblici, può agire in regime privatistico: può quindi affidare i lavori a enti terzi, anche attraverso trattativa privata. In questo modo, spiega Cicconi, è più complesso marcare il limite tra legittimità e corruzione, tra provvigioni e tangenti. Ancora: Il modello del project financing – una definizione a suo parere completamente campata in aria, perché in termini tecnici di concessione si tratta, per quanto non disciplinata come tale - permette ai finanziamenti per le grandi opere di provenire in parte direttamente dallo Stato e in parte da privati (per lo più banche), ma sotto totale garanzia dello Stato stesso, attraverso società di capitale pubblico (ma di diritto privato), come la Patrimonio dello Stato spa e la Infrastrutture spa, create con legge 112/2002, o la Stretto di Messina spa, e – seppur differente sotto molti aspetti – la “Venezia Nuova spa”, meglio nota – anche alle cronache degli ultimi giorni – come Consorzio Venezia Nuova.
Le specificità del caso- MOSE? Anzitutto, fa notare Cicconi, la contraddizione di sperimentazione, progettazione e realizzazione riunite in un unico soggetto. Il Consorzio Venezia Nuova si trova a essere sia depositario dell'attività sperimentale volta alla verifica della fattibilità del progetto, sia esecutore materiale dell'opera, in virtù di una concessione senza gara d'appalto, con una copertura finanziaria assicurata totalmente dallo Stato. Con il risultato che la gestione indipendente della sperimentazione e della progettazione di un'opera è affidata a un soggetto che è anche incaricato della realizzazione della stessa e che ne trae benefici economici.
Non solo: in prospettiva si affaccerebbe anche un dubbio sulla legittimità dei contratti, sia rispetto alla normativa europea che a quella italiana, molto più flessibile per certi versi ambigua come argomentato precedentemente. Perché quello riguardante il MOSE è un contratto di concessione, mentre qui il soggetto concessionario non trae alcun corrispettivo dalla gestione dell'opera, non c'è alcuna vendita di servizi a terzi. La triade che nella normativa europea definisce la concessione, ovvero committente pubblico – concessionario privato – mercato qui è ridotta al solo rapporto pubblico – privato, senza il controllo del mercato. Il tutto a partire da un istituto contrattuale anomalo, il contraente generale appunto: concessionario, con piena autonomia, durante i lavori, ma appaltatore di fatto alla consegna, con tutto il rischio e la copertura a carico del pubblico.
Una situazione che espone a potenziali ricorsi in sede europea, e che – con la disciplina di diritto privato, il subappalto, l'assegnazione a trattativa privata dei lavori in fase di realizzazione - espone a rischi ampissimi di corruzione. Verso le quali, però, è difficile intervenire: perché le normative italiane, a differenza di quelleeuropee, individuano la corruzione solo nel rapporto pubblico-privato, e non in quello privato-privato – neppure nel caso si tratti della realizzazione di opere pubbliche, coperte con denaro pubblico.
Difficile quindi, a parere di Cicconi, variare il giudizio contenuto nel suo libro del 2005: “Il sistema MOSE somma tutti gli aspetti negativi dell'affidamento e contraente generale (è infatti il Consorzio che progetta e realizza con le libertà sancite dalla legge Obiettivo in deroga alla legge quadro sui lavori pubblici) a quelli del concessionario, scelto senza gara, che realizza e gestisce l'opera ma che è garantito da un corrispettivo che copre il 100% dei costi”. Un quadro che, fatta salva la presunzione di innocenza di tutti gli accusati fino a conclusione dei procedimenti, toccherà ora alla magistratura di Venezia chiarire, ma che indubbiamente, se l'analisi è corretta, interroga anche il Parlamento e l'opinione pubblica e richiede modifiche di legge profonde per sanare le molte falle attualmente in essere.
Gabriele Nicoli
Michele Ravagnolo