SOCIETÀ

Ikea, smontare e rimontare il mondo. Con le proprie mani

La notizia è di pochi giorni fa: a 87 anni Ingvar Kamprad, fondatore di Ikea, “I” e “K” del celebre marchio, lascia il suo posto nel CdA della società capogruppo, Inter Ikea, al figlio minore, Matthias, con una impronta di chiara continuità del brand aziendale. Impresa di successo, tanto che non c'è quasi casa che non abbia un suo prodotto, Ikea negli anni ha visto anche polemiche sull’effettiva corrispondenza al vero del profilo di grande attenzione alla sostenibilità ambientale, alle condizioni di lavoro e alla responsabilità d’impresa vantato, come sul passato di Kamprad stesso, né sono mancati conflitti sindacali.

E la stessa idea di base dei suoi prodotti: design essenziale, materiali anche poveri ma massima funzionalità, prezzi contenuti, non sempre è apprezzata: accanto agli estimatori c’è uno zoccolo duro di detrattori a cui proprio quell’idea di mobile non va giù. Come per la brugola, lo strumento simbolo del trasporto-e-montaggio a cura dell’acquirente: la si ama, o la si odia.

Tutto questo non muta però la sostanza dell’impatto che Ikea con la sua “filosofia”, costruita da Ingvar Kamprad e dai suoi collaboratori, ha avuto nei diversi paesi. E che in Italia è stato, ed è, particolarmente forte per tutta una serie di ragioni, riassumibili nell’estrema differenza fra l’idea di consumatore e di organizzazione della casa, di società e di relazioni familiari che la cultura tradizionale del nostro paese da un lato, l’impostazione di Ikea dall’altro presuppongono. A cominciare dall’idea di far trasportare e assemblare i mobili ai compratori, e di studiare i prodotti per facilitare la vita sia a chi li usa che a chi li monta e smonta. Chiunque si sia trovato a trasportare su o giù per le scale un mobile di mobilificio, o solo un materasso, sa cosa significa pensare alla fatica che costerà, o non pensarci affatto.

Non solo: cacciavite e incastri, istruzioni e bisogno di cooperare “dicono” cose importanti: che si può fare da sè, si può imparare, che anche le mani più disallenate possono montare e smontare il mondo. Che il mondo si costruisce, e che qualcuno lo costruisce, fisicamente. Noi compresi. Che le cose possono essere fatte, e capite, anche dai non professionisti, e che alla base c’è il lavoro. Niente male come messaggio in un paese che, storicamente, ha formato nelle scuole fino a non molto tempo fa “bambini senza mani”, per i quali l’imparare non passava mai dall’esperienza, e il mondo restava inattingibile, dato. E che ha sempre rimosso il lavoro: come fatica, e come fonte di diritti. Mentre Ikea con la sua logica: “lo monti tu, quindi costa di meno” ne rende immediatamente visibile il valore, con un gesto “quasi marxiano”. La crisi, del resto, rende interessante (se non, a volte, necessario) il fai da te: l'anno scorso in Italia sono aumentate del 10% le vendite di vernici, pennelli, maniglie e cacciaviti per i lavori in casa.

Ancora: “design”, in uno dei paesi che ne hanno fatto il proprio simbolo, dalla Vespa alla Ferrari, dall’arredo ai treni, ha finito per significare disegno: estetica, forma. Mentre per la multinazionale svedese, che non a caso ha tenuto in Svezia tutta la parte di progettazione e sviluppo dei prodotti, significa progetto, in tutte le sue accezioni. Da qui, la capacità di far fare sgabelli e poltrone a produttori di catini di plastica, o arredamento per cucine a fabbriche di carrelli per la spesa. O di utilizzare le tecniche del legno lamellare degli sci degli anni ’60 per una poltrona. Da questo punto di vista Ikea è un’impresa dell’economia della conoscenza, nella quale, a dispetto del prodotto-mobile su cui sembrerebbe non ci sia nulla da innovare, ricerca e sviluppo hanno un ruolo basilare, e rivendicato.

Interessante, per l’Italia dei cervelli in fuga. Come, anche, trovare sia nei bagni delle donne che in quelli degli uomini i fasciatoi, o avere una grande area-giochi piena di palle di gomma colorate con tate e tati a disposizione dove lasciare i bambini, rompendo per una volta con l’idea dell’insostituibilità, 24h su 24, delle mamme. Non solo una strategia d'immagine: fra le maggiori imprese del commercio, Ikea è fra le poche a prevedere protocolli con affiancamento e telelavoro per facilitare i distacchi di maternità e il successivo rientro sul ruolo ricoperto delle donne, che costituiscono il 47% dei suoi dirigenti.

Forse il successo di Ikea nel nostro paese, con un chiaro profilo generazionale, oltre che nei prezzi contenuti e nel design sta nell’essere tutt’ora espressione di una società piena di problemi quanto la nostra, ma nel complesso più egualitaria, più collaborativa, con una idea di bellezza più funzionale e meno orientata all'ostentazione. Con meno paura, insomma, di “metterci le mani”, rendere meno ovvio l’ovvio e cambiarlo, se serve: dalla casa e dal ruolo delle donne all’idea che se fai un lavoro hai diritto ad essere pagato. Con lo sconto sul prezzo, magari; ma pagato. Un “imparare facendo” e un rimontare il mondo di cui abbiamo tutti bisogno, e un approccio "scandinavo" in cui c’è molto di Emil di Astrid Lindgren (anche lui dello Småland) o del Lego, al di là delle simpatie politiche – estremamente discutibili – del giovane Ingvard.

Michele Ravagnolo

© 2025 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012