SOCIETÀ
Indifferenti al tempo che passa

C’era un vecchio (raccontano i fratelli Grimm in una delle loro Fiabe del focolare) che si sbrodolava sempre e con le mani tremanti faceva cadere i piatti, rompendoli. Per questo il figlio e la nuora, seccati, decisero di dargli una ciotola di legno, di quelle che si usano per le bestie. Un giorno, però, videro loro figlio, un bambino di quattro o cinque anni, che armeggiava con un piccolo tronco e un temperino. “Cosa fai?” gli chiesero. “Comincio a preparare una ciotola di legno per quando sarete vecchi”, fu la risposta. Storia triste, ma istruttiva da diversi punti di vista. Mostra che anche in quel passato luminoso cui tendiamo ad attribuire tante virtù la vecchiaia non era considerata con grande rispetto. E ricorda che – tranne chi, essendo caro agli dei, muore giovane – vecchi si diventa tutti. Oggi, più di un tempo.
La prospettiva non è consolante: “Mentre si tende a ripetere che l’età non conta, il geriatra ci chiede scomodamente di accettare che non è cosi” è l'asciutta sentenza di Atul Gawande, endocrinologo statunitense di origine indiana, già autore di alcuni bei libri (in particolare Con cura. Diario di un medico deciso a fare meglio, Einaudi 2008), che ha pubblicato un paio di mesi fa per Metropolitan Books Being mortal. Medicine and what matters in the end, una raccolta di testi in cui dipinge un quadro tutt’altro che positivo del modo in cui si invecchia e si muore oggi. Strana epoca, in effetti, la nostra, nella quale, grazie ai progressi della medicina, l’aspettativa di vita continua a crescere in tutto il mondo, ma si fa relativamente poco per rendere dignitoso, se non gradevole, il tratto finale dell'esistenza umana.
Parlando nel suo libro degli Stati Uniti, Gawande sottolinea che il numero dei geriatri è in calo (tra il 1996 e il 2010 sono diminuiti del 25%, nonostante in parallelo i vecchi – cioè le persone che hanno più di 65 anni – abbiano superato il 14% della popolazione statunitense) e descrive in modo molto critico le nursing homes dove gran parte degli americani finiscono i loro giorni, organizzate come sono non intorno al benessere quotidiano degli ospiti, ma su uno schema di orari e di regole ideato per facilitare il lavoro degli operatori, secondo una logica puramente imprenditoriale. E sebbene in Europa, e in particolare in Italia (paese tra i più longevi al mondo, con una aspettativa di vita di 79 anni per gli uomini e di 84 per le donne), la situazione sia nel complesso migliore, anche qui i geriatri sono pochi rispetto al continuo aumento dei vecchi, e per i più anziani gli ultimi anni, trascorsi quasi sempre in uno stato di isolamento rispetto agli affetti e agli interessi di un tempo, assomigliano molto a un grigio limbo in attesa della morte.
Insomma, la quarta età che ci viene offerta e che continua ad allungarsi anche nei paesi più poveri, non pare un gran bel regalo. Eppure, a dare credito a Ellen Langer, docente di psicologia a Harvard, una soluzione esiste, ed è anche – almeno all'apparenza – piuttosto banale: basta infatti che i vecchi non vivano “da vecchi”.
Già nel 1981 la studiosa, cui di recente il New York Times Magazine ha dedicato un lungo ritratto, aveva condotto un esperimento in questa direzione: otto uomini ultrasettantenni erano stati invitati a trascorrere cinque giorni in un ex monastero del New Hampshire, arredato in tutto e per tutto come se il mondo si fosse fermato nel 1959, canzoni di Perry Como e televisore in bianco e nero inclusi. I soggetti inoltre erano stati invitati a comportarsi come se avessero avuto vent’anni di meno, anche sottoponendosi a sforzi cui non erano più abituati.
L’effetto di questo salto indietro nel tempo era stato stupefacente: in meno di una settimana tutte le “cavie” avevano sensibilmente aumentato le loro capacità motorie, avevano una pelle più distesa e perfino la loro vista era migliorata. Vista l’esiguità del campione, Langer aveva tuttavia scelto di parlarne solo all'interno di un libro (Higher stages of human development, Oxford University Press 1990), ma non sulle riviste scientifiche. Negli anni la studiosa è però tornata più volte su questo tema, trovando continue conferme alla sua prima intuizione, e si sta preparando ora a una nuova versione dell'esperimento, che si terrà in primavera e avrà questa volta come soggetti un gruppo di donne malate di tumore al seno a uno stadio avanzato, che saranno “riportate” al 2003, prima cioè dell’insorgere della malattia. Se di nuovo verranno registrati miglioramenti oggettivi e duraturi, Langer potrà ribadire con maggiore forza quello che afferma da tempo, che il cosiddetto “effetto placebo” è qualcosa di ben più importante, e intorno al quale è necessario concentrare nuove ricerche.
E per quanto riguarda la vecchiaia, sarà un altro elemento a favore dell’utilità di mantenersi attivi e inseriti in una rete di relazioni, di non arrendersi allo stereotipo di una vita in pantofole davanti alla tivù. Ma c’è davvero bisogno di esperimenti scientifici per questo? A partire dal presidente Napolitano, che si prepara a lasciare infine la sua carica mentre veleggia verso i 90 anni, e passando per una infinità di capi di stato, artisti, scienziati, intellettuali sono numerosissimi gli esempi di vegliardi per i quali sembra che lo scorrere della sabbia nella clessidra si sia magicamente bloccato.
Ancora il magazine del New York Times ha affrontato il tema in un ampio servizio intitolato significativamente Old masters at the top of their game: dove si vede che tutti gli intervistati, dal celebre biologo Edward O. Wilson, anno di nascita 1929, al suo coetaneo archistar Frank Gehry, sono serenamente indifferenti al tempo che passa, convinti di avere ancora molto da dare. Dice il cantante Tony Bennett, classe 1926, che soltanto pochi mesi fa ha duettato con Lady Gaga: “Sento di poter imparare ancora oggi e domani e il giorno successivo a fare meglio il mio lavoro, a mettere a fuoco nuove idee”.
Si potrebbe obiettare che si tratta di felici eccezioni, individui che hanno trascorso una intera vita concentrati sulle loro passioni, imparando a nutrirle giorno dopo giorno. Ma gli esperimenti di Ellen Langer rivelano che obiettivi analoghi potrebbero essere alla portata di persone “comuni”. E c’è dell’altro: alcuni studi recenti mettono in discussione l’idea che la vecchiaia porti necessariamente con sé un declino cognitivo. I vuoti di memoria, la lentezza nel comprendere nuovi concetti non sarebbero dovuti a un complessivo calo di capacità, ma – come sintetizza bene Zach Hambrick, psicologo alla Michigan State University – “a un aumento della intelligenza ‘cristallizzata’ a sfavore di quella ‘fluida’”.
Se, come scriveva L.P. Hartley in Messaggero d'amore, “il passato è una terra straniera”, forse anche la vecchiaia, con il suo bagaglio di conoscenze e di esperienze spesso sepolte sotto strati di pregiudizi e di indifferenza, è un territorio da conoscere, da esplorare, da imparare ad amare. Ne varrebbe la pena, se non altro perché è un territorio verso il quale la maggior parte di noi si sta incamminando.
Maria Teresa Carbone