SOCIETÀ
Innovazione come ricetta anti-crisi, ma non per tutti

Foto: Massimo Pistore
Tre decenni, a partire dagli anni Ottanta, disegnano il Veneto come terra di piccole imprese: amalgama di minuscole industrie e officine, luogo ad alta competitività produttiva e a vocazione manifatturiera. Vocazione che si è tradotta in sistemi di piccola e media impresa che nel 2008, sulla soglia della crisi, fornivano il 76,7% dell’occupazione nel settore industriale, per due terzi in imprese di dimensione piccola o piccolissima (dati Excelsior Unioncamere, 2012). Con le grandi aziende che sembravano recitare un ruolo di secondo piano, almeno fino a oggi. L’industria del Nordest forniva quasi un terzo del valore aggiunto prodotto in Italia e il Veneto rappresentava il territorio più aperto agli scambi con l’estero, esportando il 33,3% del Pil regionale, quando la media italiana si fermava sul 21,7%. Un quadro in cui – secondo un rapporto Banca d’Italia del 2011 – il settore metalmeccanico appariva particolarmente stabile, anche se non sufficientemente dinamico: pur avendo una delle quote di mercato più alte nelle esportazioni, non era infatti premiato da un valore di mercato altrettanto positivo.
Effetti che si fanno sentire ancor di più in tempi di recessione. Per uscire dall’empasse, secondo Paolo Gubitta, studioso e docente dell’organizzazione e del governo delle Pmi, è necessario un ri-orientamento della base manifatturiera: “Alle imprese si richiede di essere agili, d’essere in grado di spostarsi da un mercato all’altro, di produrre secondo strategie che partono dal momento stesso della concettualizzazione del prodotto. Ciò che le nostre imprese non sono state in grado di fare è l’upgrading attraverso l’innovazione, che può realizzarsi solo grazie all’impiego di capitale umano qualificato”.
Una capacità di innovare che potrebbe restituire dinamismo alle imprese, e allo stesso tempo aprire maggiormente il mercato del lavoro a laureati e a figure ad alta preparazione accademica. Alla prova dei fatti, nel 2012 Il sistema Unioncamere Excelsior formulava la previsione delle aziende metalmeccaniche venete di assumere una larga base di operai specializzati (33,1%), una buona percentuale di tecnici e conduttori d’impianti (43%) e un numero più ridotto di addetti alle professioni intellettuali (11,6%). Con i laureati che andavano a ricoprire professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione nel 53% dei casi, mentre nel 43% venivano impiegati in professioni tecniche (elaborazione Osservatorio sul mercato locale del lavoro su dati Excelsior).
Oggi il monitoraggio trimestrale Unioncamere, nel periodo gennaio-marzo 2013, restituisce un’immagine delle assunzioni programmate nel settore fortemente legata all’indirizzo produttivo: se infatti le industrie dei metalli riservano ai laureati solo un 9,3% del totale degli assunti, quelle meccaniche attingono invece per quasi il 18% al serbatoio universitario. Percentuale che cresce ancora nel campo della progettazione, della ricerca e dello sviluppo nel campo delle industrie meccaniche. A beneficiarne saranno soprattutto gli ingegneri; mentre si conquistano buone chance gli economisti, soprattutto nelle industrie dei metalli, e una piccola percentuale di chimici e di esperti linguistici.
Un "movimento" che deve però fare i conti con il quadro generale. Infatti le assunzioni da parte delle imprese metalmeccaniche venete hanno registrato un saldo fortemente negativo nel biennio 2011-2012: un -44,7% molto pesante che coinvolge soprattutto le aziende più piccole. L’occupazione si sposta verso le grandi aziende, che nel 2012 hanno effettuato più di metà delle nuove assunzioni, e dove si concentra gran parte della richiesta di laureati. Richiesta che in percentuale sale di molto, passando da un 3,1% nel 2002 a un 19,3% nel 2012 (fonte Osservatorio sul mercato locale del lavoro).
Chi ce la fa oggi, insomma, sembrano essere proprio le aziende più grandi, che continuano ad assumere, anche se a ritmi contenuti. Possono permettersi di investire in ricerca e innovazione, e altrettanto in formazione, per colmare il gap fra l’accademico e il pratico, ma anche per servirsi della formazione universitaria per incentivare la produzione. “Alla Carraro assumiamo laureati in ogni settore dell’azienda, e se dobbiamo scegliere fra un candidato con una laurea breve e uno che invece ha concluso il ciclo magistrale, premiamo quest’ultimo. Anzi, recentemente abbiamo anche collaborato con dottorandi in apprendistato di alta formazione”, afferma Lisa Putignano, recruiting & training manager dell’azienda internazionale che ha sede a Campodarsego, in provincia di Padova. “Abbiamo stabilimenti in India, Cina, Germania, Argentina e Brasile, dove produciamo per il mercato locale”, continua la manager. “Dei 4.000 dipendenti dell’azienda, 2.000 lavorano in quelle nazioni. E nelle posizioni direttive mettiamo italiani. Abbiamo due poli di ricerca, uno in sede e uno in India: è lì che si apre lo spazio per chi voglia lavorare con noi all’innovazione più avanzata”. Innovazione dunque, ma anche internazionalizzazione, spesso orientata a un aumento delle quote destinate all’esportazione, a volte nel nome di una più conveniente delocalizzazione, sembrano essere oggi le armi principali per combattere la crisi nel settore metalmeccanico. A patto di potersele permettere.
Chiara Mezzalira