La parola ‘microplastica’ è apparsa per la prima volta vent’anni fa in un articolo scientifico intitolato Lost at sea: where is all the plastic? e pubblicato sulla rivista Science. Gli autori partivano dalla semplice considerazione che ogni anno milioni di tonnellate di plastica venivano prodotte e una grossa parte di essa, diventata ormai un rifiuto, finiva per accumularsi negli “habitat marini in tutto il mondo, dove può giacere per secoli”. Una parte di tutta questa plastica era costituita da particelle così piccole da risultare invisibili a occhio nudo. Gli autori dell’articolo, infatti, tentavano per la prima volta una stima della quantità di microplastica, ovvero di particelle del diametro inferiore a 2 micrometri (2 millesimi di millimetro) e davano così inizio a un nuovo settore di ricerca sull’inquinamento ambientale.
Un rischio per l’ambiente e la salute
La prima definizione non è però quella che ha retto negli anni successivi al 2004. Per un periodo, come ricorda una recente review pubblicata su Science proprio in occasione dei vent’anni dell’apparizione delle microplastiche, la dimensione massima delle particelle non era ben definita e non esisteva uno standard. La cosa cambiò solo tra il 2008 e il 2009, quando National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA, l’agenzia che si occupa di mari e meteorologia per il governo degli Stati Uniti) e Unione Europea hanno adottato lo standard attualmente impiegato in letteratura scientifica: si definisce microplastica ogni particella plastica che non superi i 5 millimetri di diametro massimo.
La questione della dimensione può sembrare una faccenda marginale, ma non lo è. Fin dall’allarme lanciato vent’anni fa, infatti, le dimensioni così ridotte permettono non solo che la plastica venga ingerita dagli animali, come per esempio i pesci che nuotano in fiumi ricchi di microplastiche. Ma anche che all’interno degli organismi viventi possa infilarsi fin dentro ai tessuti. Si può infatti leggere in un articolo informativo pubblicato sul sito dell’Istituto Mario Negri di Milano che una volta che le microplastiche arrivano nei fiumi e nei laghi “diventano potenziali fonti di inquinamento e di biomagnificazione, ovvero quel processo di accumulo di sostanze tossiche a partire dai livelli più bassi della catena alimentare fino ad arrivare all’apice, dove si raggiunge quindi la massima concentrazione di inquinanti”.
“ Si definisce "microplastica" ogni particella di plastica con diametro inferiore a 5 mm
In altre parole, gli organismi che si trovano più in alto nella catena alimentare, come per esempio l’essere umano, ingeriscono tutte le microplastiche a loro volta ingerite dagli organismi (pesci, piante, ecc.) di cui si nutrono. È un meccanismo molto noto fin dal secondo dopoguerra, quando si è cominciato a studiare la distribuzione e la vita degli inquinanti nell’ambiente. A rendere celebre il meccanismo è stato il libro Primavera silenziosa pubblicato da Rachel Carson nel 1962 e in quel caso la denuncia riguardava l’uso scriteriato dei pesticidi in agricoltura. Per questo motivo, come racconta Francesca Buoninconti, il libro è da considerarsi il manifesto antesignano del movimento ambientalista.
Fonti di microplastiche
Nella nuova review pubblicata da Science è ricostruita anche la storia dello studio delle microplastiche. Molti studi, infatti, hanno provato a calcolare la quantità di microplastiche che si poteva riscontrare in un determinato ambiente o organismo, dai mari e le coste del 2004 ai terreni, alimenti, animali e persino all’interno del corpo umano. Abbiamo così imparato che non c’è angolo del pianeta e animale o pianta sulla faccia della Terra che non siano entrati in contatto con le microplastiche e con il loro potenziale negativo per la salute e l’equilibrio ecologico.
Ma da dove proviene tutta questa plastica. Gli autori e le autrici della review hanno passato in rassegna i prodotti e gli utilizzi diversi che vengono fatti dei materiali plastici, classificandoli secondo il modo in cui sono sorgente di microplastiche. Sono detti “sorgenti primarie” quelle microplastiche che vengono già prodotte in piccole dimensioni, come per esempio i pellets plastici, una sorta di farina, che vengono impiegati come materia prima per produrre altri oggetti in plastica. Appartengono a questa categoria anche le micro-perline (micro beads) che si trovano in alcuni prodotti cosmetici o nelle vernici, oltre al glitter di cui l’Unione Europea ha vietato la vendita dal 2030.
Sono considerate “secondarie” tutte quelle sorgenti che generano microplastiche da altre attività. La prima, e più ovvia, è la rottura di oggetti plastici più grandi, come per esempio i rifiuti che finiscono in un fiume perché non sono stati messi nel cassonetto del riciclo. Ma sono fonte di microplastiche anche i tessuti con cui vengono prodotti molti vestiti contemporanei: nel corso del tempo, semplicemente indossandoli, particelle microscopiche si staccano e si disperdono nell’ambiente. Altre fonti secondarie sono i processi di riciclaggio della plastica stessa e il consumo degli pneumatici dei veicoli. La review ha anche provato a stimare quante microplastiche vengono prodotte da ogni singola fonte basandosi su 8 studi principali.
Il grafico ci fa capire immediatamente come il problema maggiore sia quello della mancata gestione dei rifiuti di plastica. I dati più aggiornati mostrano, infatti, come nonostante l’aumento della plastica che entra nel processo di riciclo sia aumentata moltissimo negli ultimi vent’anni, esiste ancora una fetta consistente dei rifiuti plastici, circa il 20%, che finisce direttamente in ambiente. È quella che viene indicata nei rapporti come semplicemente “gettata” o “mal gestita”: non finisce, cioè, nel cassonetto differenziato. Il grafico, inoltre, mostra come a livello globale ancora nel 2019 metà dei rifiuti plastici non venisse riciclata, ma finisse direttamente in discarica.
Quando “per sempre” suona come una minaccia
La produzione di plastica esplose all’inizio degli anni Sessanta. Uno dei protagonisti è stato l’italiano Giulio Natta, che per la scoperta del polipropilene isotattico ha ricevuto il Nobel per la chimica. La nuova famiglia di molecole permetteva la realizzazione di oggetti mai pensati prima, anche per l’uso quotidiano: secchi, bacinelle, piatti e bicchieri, ma anche giocattoli e utensili. Tutti a prezzo molto basso. Al punto che proprio la plastica ha avuto un ruolo fondamentale nella realizzazione di oggetti usa e getta. Una delle prime molecole commerciali si chiamava Moplen ed è stata resa celebre anche per una serie di spot pubblicitari interpretati dal comico Gino Bramieri dentro a Carosello.
Episodio del Carosello con Gino Bramieri che pubblicizza il Moplen
La resistenza del Moplen decantata da Bramieri è il problema principale, come la scienza delle microplastiche ha sottolineato fin dal 2004: può rimanere negli ambienti naturali per secoli. E in questo tempo lunghissimo continuare a essere una fonte di microplastiche. Secondo le proiezioni della review di Science, l’inquinamento da microplastiche è destinato a raddoppiare entro il 2040 e il danno previsto è “su larga scala”.