SOCIETÀ
L'onestà non è tutto

Foto: Alfredo Falvo/Contrasto
Le cronache di questi giorni ci costringono a parlare dell’onestà come emergenza piuttosto che come dato di fatto per chi occupa cariche pubbliche. Ma avere politici onesti, nel senso che “non rubano”, sarebbe davvero la panacea di tutti i mali? Qual è il significato e il ruolo sociale della rettitudine, quale la sua rilevanza attuale, in particolare in Italia? A questa indagine è dedicato l’ultimo libro di Francesca Rigotti (Onestà, Raffaello Cortina 2014), docente presso la facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università della Svizzera italiana a Lugano.
L’autrice traccia una storia del concetto di onestà dall’antichità ai giorni nostri. L’honestum, scrive lo storico e filologo Max Pohlenz, deriva dal concetto greco di kalon inteso come bene morale, trasposto nella realtà romana da Cicerone in modo da richiamare l’idea di honor (fondamentale nella società latina: pensiamo solo al cursus honorum). In pratica tutto ciò che in genere riceve pubblicamente apprezzamento o stima. Per il filosofo (nel De inventione) onesto è “ciò che complessivamente o in parte si persegue per se stesso”, mentre Aristotele nelle sue opere non cita mai direttamente questo concetto. Per le donne invece l’honestas tende storicamente sempre a coincidere con la castità e con il pudore, quasi fosse questo l’unico ambito in cui queste possano esprimere la loro virtù.
Contraltare di quello di onestà è il concetto di corruzione, che invece ha una storia sorprendentemente più breve, essendosi delineato nella versione attuale soltanto a partire dal ‘700. Una delle caratteristiche dell’Ancien Régime era infatti la confusione tra pubblico e privato, patrimonio personale e cariche pubbliche, per cui non era affatto raro e disdicevole – ancorché condannato dalla Bibbia (Esodo 28,3) – per un magistrato accettare regali o prebende per atti della sua funzione.
L’onestà come virtù è quindi strettamente connessa con la vita pubblica. Il problema è se questa basti oppure se, negli affari dello Stato, sia necessario anche qualcosa di ulteriore e di diverso. Se infatti in Cicerone l’honestum coincide sempre con l’utile, con Machiavelli prevale la Ragion di Stato, la quale spesso esige l’uso di qualsiasi mezzo, come l’inganno e addirittura l’omicidio.
Chi ha ragione? Ai politici e amministratori dobbiamo chiedere anzitutto rettitudine morale oppure basta la competenza, anche se priva di scrupoli? Il dibattito ogni tanto si riaccende: se da una parte don Chisciotte – che non è comunque l’archetipo della persona di successo – sostiene che “L’onestà è la miglior politica”, dall’altra Benedetto Croce scrive che “manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa della onestà nella vita politica”. “È strano – continua il filosofo abruzzese – che, laddove nessuno, quando si tratti di curare i propri malanni o sottoporsi a una operazione chirurgica, chiede un onest’uomo (...) nelle cose della politica si chiedano, invece, non uomini politici, ma onest’uomini, forniti tutt’al più di attitudini di altra natura”.
Un confronto particolarmente vivo proprio nella nostra Penisola, dove “la minoranza corrotta – scrive Bernardo Giorgio Mattarella ne Le regole dell’onestà – è forse meno minoranza che in altri paesi. Quando però parliamo di onestà, suggerisce la Rigotti, sappiamo veramente di cosa si tratta? Il problema, scrive l’autrice, sta nel fatto che oggi si intende questo concetto soprattutto in senso economico, secondo l’uso invalso soprattutto negli ultimi anni. Va da sé, secondo l’autrice, che per essere un buon politico, amministratore, imprenditore o semplicemente una persona di valore non basta “non rubare”. Se però per onestà intendiamo in maniera positiva una serie di qualità morali e civili (come il rispetto della parola data, l’onore, il decoro e il fatto di perseguire degli ideali morali...), siamo certi di poterne fare a meno?
In una società dove non esiste nemmeno più il simulacro dell’onestà come valore condiviso, le persone semplicemente non si fidano semplicemente più delle altre, a cominciare da chi le comanda. Per restare al paradosso di Croce, ci fideremmo di un chirurgo, se sapessimo che altre volte ha proposto ai suoi pazienti delle cure costose, ancorché inutili o addirittura dannose? Probabilmente no, perché la deontologia – altra parola per esprimere lo stesso concetto – fa parte del bagaglio di ogni professione.
In questo senso, secondo l’analisi della Rigotti, concetti apparentemente desueti come l’onore e il decoro devono costituire la base di un sistema politico e sociale evoluto. E allora il problema si sposta dalla qualità dell’attuale classe politica ai criteri della sua selezione. Che futuro ha un qualsiasi paese, se una persona che si attiene alla parola data, ad alcuni principi morali e a un’ideale di magnanimità viene messa da parte, o addirittura messa in ridicolo e schernita?
Daniele Mont D’Arpizio