SOCIETÀ
Malattia, sport e genitorialità: l'esperienza di Giulia

Illustrazione di Fabio Visintin
La fibrosi cistica è una malattia che ti toglie il respiro. A causa di un difetto genetico nei bronchi si formano delle sacche dove si accumula muco (le bronchiectasie), che non venendo espulso diventa un continuo ricettacolo di infezioni. Le conseguenze più evidenti sono la ridotta capacità respiratoria e la tosse persistente; l’aspettativa di vita si aggira mediamente intorno ai 45 anni. Difficile in queste condizioni pensare allo sport, addirittura a livello agonistico: eppure questa è la storia di Giulia Mincato, fibrosi cistica diagnosticata fin da bambina e istruttrice di nuoto in piscina, 26 anni e una laurea in servizio sociale all’università di Padova.
Oggi Giulia è all’apparenza una ragazza in salute, persino atletica, come richiesto dalla sua professione. “Anche mia madre era istruttrice, mi ha buttato in acqua ancora prima che iniziassi a camminare – risponde Giulia con semplicità – Inoltre, al di là di quanto si ritiene comunemente, lo sport è molto importante per i disabili: nel mio caso soprattutto per allenare i polmoni e per rinforzare scheletro e muscolatura”. A Giulia non piace star ferma: “Avere una buona struttura fisica è molto importante. Pensate che con una semplice influenza posso anche arrivare a perdere 10 chili in una settimana: con un corpo più in forma riprendersi è molto più facile”. Giulia ha fatto anche agonismo, partecipando ai campionati nazionali e a un mondiale di nuoto pinnato: “Del resto anche i miei esercizi di fisioterapia respiratoria, tramite l’uso di uno strumento chiamato pep-mask, sono stati un ottimo allenamento supplementare”.
Giulia dal 2006 insegna a nuotare ad adulti e bambini presso una società padovana: “Un lavoro che forse qualcuno giudicherà umile ma che per me è bellissimo, mette molta allegria, e crea continui contatti con le persone. Una mamma che ti affida suo figlio ti dà una fiducia grandissima”. Nonostante avesse già un lavoro, nel 2013 ha conseguito anche la laurea magistrale in Servizio sociale: “L’ho fatto innanzitutto per me stessa, perché amavo le materia. Se ho avuto difficoltà durante gli studi per la malattia? Non molta. Con i compagni di studi (in realtà eravamo quasi tutte donne) la situazione è stata più complessa: ho ricevuto molta amicizia e solidarietà – sono stata anche rappresentante degli studenti – ma sono stata anche attaccata da chi ha detto che usavo la malattia per farmi compatire, o che il mio malessere era leggero o addirittura inventato”.
Già, il rapporto con la malattia: “Una volta quasi me ne vergognavo, mentre oggi è diverso. Ne parlo anche per sensibilizzare gli altri, anche se occorre una certa cautela, perché si rischia di spaventare la gente. Alcuni magari pensano che la mia malattia sia infettiva e allora si preoccupano se mi sentono tossire”. Ultimamente Giulia si sta impegnando, assieme all’amica Caterina Simonsen, proprio sul fronte dell’informazione, parlando su internet della sua condizione e dei problemi che devono affrontare in Italia coloro che sono colpiti da malattie croniche o rare. Giulia ha poi recentemente scritto un articolo, poi pubblicato da un blog molto seguito, sulla necessità, per i malati e i portatori di fibrosi, di ponderare bene la decisione di avere figli. “Tra poche settimane mi sposo, e un anno fa io e il mio futuro marito abbiamo già fatto il test genetico di coppia”. Il risultato è stato una doccia fredda: “Purtroppo anche il mio compagno è portatore sano del gene della fibrosi cistica”.
In questo caso c’è il 50% di rischio di avere bambini malati. Si pone in questo caso una scelta difficile: “Da una parte hai paura di condannare un bambino a una vita piena di difficoltà, nonostante la ricerca faccia comunque passi avanti, facendo sperare che prima o poi la situazione possa modificarsi. Inoltre non potrei nemmeno seguire un figlio, visto che anch’io sono malata. Da cattolici è una scelta difficile, ma per il momento siamo sereni”. Secondo la legge 40 del 2004 non è possibile, nel caso di Giulia, fare la fecondazione artificiale con diagnosi prima dell’impianto nell’utero. Le uniche alternative quindi per non avere figli malati sono andare all’estero o, come scelta estrema, l’aborto: “Ma non è nelle mie corde” sorride Giulia. “Per il momento siamo tranquilli e non pensiamo di avere figli; non condanno però chi va all’estero per fare la diagnosi pre-impianto o la fecondazione eterologa. Penso anzi che valuteremmo anche noi queste possibilità, se fossero disponibili anche in Italia”.
Intanto la ricerca sulle malattie va avanti così come, poco a poco, la consapevolezza dell’opinione pubblica riguardo le malattie. Internet oggi è lo strumento principe, ma scottano ancora le polemiche e gli attacchi personali – o flame war, in gergo – venuti a galla negli ultimi tempi. “L’impatto dei social network è positivo e negativo insieme: sono una finestra sul mondo per tanti malati, altrimenti chiusi in un letto d’ospedale, allo stesso tempo però espongono al rischio di essere strumentalizzati o fraintesi”. Quanto alla sperimentazione animale: “Spero che presto venga sostituita da metodi alternativi; anch’io tengo molto agli animali: in particolare a Bacco e ad Ariel, i miei due beagle. Ma per ora ritengo che sia un male ancora necessario: non possiamo ignorare i progressi fatti dalla medicina anche negli ultimi anni. Faccio solo un esempio legato al mio caso: oggi abbiamo nuovi apparecchi, anche questi ovviamente collaudati prima sugli animali, con i quali è possibile fare un aerosol completo in pochi minuti. Per molti malati anche questo significa dignità e qualità della vita”.
Daniele Mont D’Arpizio