SOCIETÀ

Monòpoli per tutti, fin dalla culla

Perché l’università non riesce a far germogliare nei giovani lo spirito imprenditoriale? Risponde l’ex ministro Francesco Profumo: “L’università è la catena terminale. Questo tipo di cultura deve essere impartito molto prima. Fondamentale è una formazione che parta dai bambini. La cura non è semplice”.  Imprenditori si nasce o si diventa? Meglio formarsi ad Harvard o a Padova oppure al Cuoa? E perché ci sono così poche donne che fanno impresa? Risponde l’imprenditrice trevigiana Katia Da Ros: “Imprenditori un po’ si nasce e un po’ si diventa. Serve la passione tipica di chi vuole cambiare il mondo. Gli studi aiutano ma non sono determinanti. Fra Padova e Harvard scelgo l’America solo perché mi garantisce più contatti, lì convergono futuri imprenditori di tutto il mondo. Ma dal punto di vista della formazione, l’università di Padova o il Cuoa non hanno nulla da imparare. Sì, le donne imprenditrici sono poche. E’ una questione culturale. Sono prime negli studi ma poi latitano a contatto con la realtà. Forse manca l’autostima, hanno paura di fallire. Però devono capire che per riuscire nella vita qualche rischio bisogna prenderlo”.

È più facile fare impresa a Dublino o a Padova? Poi perché noi italiani siamo così complicati? Non sarebbe possibile fare un copia-e-incolla con le regole semplici ed efficaci di altri Paesi? Le tasse sono il vero spauracchio degli investitori? Rispondono tre ex avviatori di star up, ora imprenditori: “A far nascere un’impresa a Dublino ci metto due ore, a Padova mi servono tre anni. Qui da noi è tutto più complicato. Bisogna che diventiamo un Paese normale. Il copia-e-incolla è facile ma nella trasposizione è indispensabile la competenza. In un mercato senza confini le start up non possono aspettare ma occhio alla fretta. Al governo non chiediamo aiuti ma regole giuste. Bisogna continuare a seminare, ma non è detto che subito ci sia un buon raccolto”.

Frammenti di testimonianze e di idee raccolti alla presentazione del rapporto di Gem (Global Entrepreneurship Monitor), coordinato da Moreno Muffatto, ordinario di gestione strategica delle organizzazioni all’ateneo di Padova e relativo al 2013, che ha fotografato in modo sistematico e strutturato l’evoluzione della nuova imprenditorialità nei vari Paesi. Lo studio ha coinvolto quasi 200.000 persone appartenenti a 70 Paesi, in rappresentanza dei tre quarti della popolazione mondiale e circa il 90% per prodotto interno lordo globale. Il principale indicatore utilizzato da Gem è stato il tasso di imprenditorialità (Tea, Total early stage Entrapreneurial Activity) che tiene conto del livello dell’attività imprenditoriale considerando l’imprenditorialità  e le nuove imprese (fino a 3 anni e mezzo dall’inizio dell’attività) all’interno della popolazione adulta (compresa fra i 18 e i 64 anni).

 L’Italia non ci fa un gran figurone. Fra le economie Innovation Driven l’Italia si colloca all’ultimo posto. “Anche la percezione delle opportunità imprenditoriali in Italia - si legge nel rapporto - è piuttosto bassa, circa la metà della media dei Paesi Innovation Driven. Mentre particolarmente elevata risulta la paura di fallire. In questa particolare classifica nel 2013 l’Italia è in linea con la Grecia”. L’Italia supera il 48% ma nel 2012 aveva toccato il 58% (nel 2013 Germania 38%, Svizzera 28%). Il tasso di nuova imprenditorialità nel nostro Paese è sceso dal 4,3% del 2012 al 3,4% del 2013. Prevalgono le attività rivolte al consumo finale (commercio e ristorazione), mentre “in termini geografici l’attività imprenditoriale è più vivace a Nord-Ovest e al Sud”. 

L’imprenditorialità nascente, ovvero la percentuale di popolazione che sta cercando di avviare un’attività imprenditoriale,  è di due tipi: imprenditorialità per opportunità e imprenditorialità per necessità. Nei Paesi a maggiore dinamicità economica il primo valore supera abbondantemente il secondo: Norvegia 15 volte, Svizzera 9, Francia 4 volte, Germania e Gran Bretagna 3 volte. Per l’Italia i due valori sono molto simili e il dato che fa la differenza è l’imprenditorialità per opportunità, di molto inferiore rispetto a quasi tutti gli altri Paesi. 

Dati sconfortanti per l’Italia, insomma. Ma si potrebbe decisamente fare meglio se… Ecco quali sono i freni che impediscono alla nuova imprenditorialità italiana di decollare? Penalizzanti rispetto alla situazione europea - si afferma nella ricerca Gem - sono la situazione delle infrastrutture, i programmi di sostegno all’imprenditorialità, le norme sociali e culturali e la formazione”. In sintesi - si rimarca - “emerge il quadro di un Paese con grandi opportunità per l’attività imprenditoriale ma che incentiva poco i propri cittadini verso tale attività, sia per le carenze nella formazione e nell’approvazione sociale, sia per le carenze nelle infrastrutture e nei programmi di sostegno”.

Emerge sempre in ambito nazionale un altro dato penalizzante: è la burocrazia, che viene giudicata peggiore delle tasse che pure sono un grosso peso per le imprese. Fronteggiare la burocrazia, regole e licenze sono una sorta di montagne russe per le start up. A questo si aggiunga la farraginosità della legislazione, le lungaggini giudiziarie, lo scarso supporto delle istituzioni e la mancanza di credito e allora si comprende come la voglia di fare impresa sia così contratta da noi rispetto a quanto avviene nel resto d’Europa.

Come le gemme delle piante per sbocciare hanno bisogno di un giusto clima, così le “gemme d’impresa” necessitano di un contorno non fatto di parole e promesse ma di semplificazione delle procedure, supporto pubblico agli incubatori di impresa, formazione imprenditoriale, diffusione della cultura imprenditoriale e di abbattimento della tassazione. In altre parole in Italia le buone idee non mancano e la volontà di realizzarle nemmeno. Giovani e meno giovani sono aperti al cambiamento. Il fermento si avverte. Guai soffocarlo. 

Valentino Pesci

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