SOCIETÀ

I nuovi “poveri grigi” in cravatta

C’è quello dei politici e quello degli economisti, dei sociologi e degli statistici: di chi spiega che è ormai crisi nera, e di chi replica che sono tutte balle, siamo sempre i migliori. Poi c’è quello del Nordest vero, che si misura con le grane di tutti i giorni; che fa i conti con i soldi ma anche con il disagio interiore; che sta sperimentando sulla propria pelle il cambiamento, ancora invisibile ma profondo, dal benessere mediamente diffuso di ieri, alla polarizzazione delle condizioni di vita di oggi. Con una minoranza che sta di gran lunga meglio. E una maggioranza che fa sempre più fatica a sfangarla.

Per guardare in faccia questo inedito Nordest non c’è bisogno di percorrerlo in lungo e in largo. Basta fermarsi a Padova, nell’esiguo spazio di qualche centinaio di metri, la distanza che separa le cucine popolari dalla stazione ferroviaria. In coda alle prime, all’ora di pranzo, non ci sono soltanto immigrati e barboni; tra loro si mescolano i rappresentanti di quello che qualcuno ha efficacemente battezzato “il popolo dei nuovi poveri grigi”, magari in giacca e cravatta. Che hanno sì  un posto di lavoro quindi uno stipendio; ma che non ce la fanno comunque ad arrivare a fine mese, specie se tengono famiglia.

Le loro voci parlano chiaro. Luciana, 43 anni, due figli, occupata in un’impresa di pulizie, 650 euro al mese: “Mio marito è operaio, prendeva 1.000 euro al mese in nero, poi un giorno l’hanno lasciato a casa. Abbiamo quattro mesi di affitto arretrato da pagare, fanno 2.200 euro”. Emma, 71 anni, vedova, 350 euro al mese di pensione: “La settimana scorsa sono andata alla Caritas con la bolletta della luce, perché rischiavo che mi tagliassero la corrente. Me l’hanno pagata loro, ma la prossima?”. Matteo, 48 anni, sposato, tre figli di cui uno con la distrofia muscolare, impiegato in un ufficio privato: “Mia moglie fa qualche lavoretto, tra me e lei entrano 1.300-1.400 euro al mese. La palestra per il figlio malato costa. Sto tirando su tutto, a mezzogiorno vengo a mangiare qui perché anche quei pochi euro risparmiati fanno comodo”.

L’altra faccia è poco più in là, in stazione. Dove l’ex collega di un manager rimasto a spasso per ristrutturazione aziendale indica un signore distinto, abito di buon taglio, camicia azzurra, cravatta, valigetta 24 ore, che fa la coda in biglietteria: “Vede quello? Non ha problema di soldi, perché se n’è andato con una robusta buonuscita. Però si vergogna di dire a casa che ha perso il posto. Allora la mattina esce regolarmente come se andasse al lavoro, invece sale in treno, va a farsi un giro a Verona o Venezia, poi la sera rientra in famiglia come se niente fosse”.

Certo, nessuno crepa di fame, come invece succede altrove. Ma il trauma è ugualmente forte, per un Nordest abituato a non farsi mancare nulla. E basta fare un giro a Padova sotto il Salone, per toccare con mano il fenomeno della quarta settimana, quando cominci a non farcela più: è la riscoperta del buon vecchio “casolino”, al quale grazie a una collaudata conoscenza a un certo punto del mese puoi dire “segni”, e pagarlo poi dopo il 27, una volta incassato lo stipendio. Al disagio economico si accompagna quello psichico, di chi vede stravolto un suo progetto di vita. Sempre a Padova, ne rende testimonianza Sergio, 27 anni, laureato in Lettere a pieni voti già da 4, e oggi occupato in un call-center a 600 euro al mese: “Ho preso 110 e lode, sono andato all’estero a fare qualche esperienza di lavoro, parlo quattro lingue. Ho spedito in giro curriculum a raffica: niente. Ho fatto il giro delle agenzie interinali, e mi hanno spiegato che per il loro giro avevo un profilo troppo alto. Ho riscritto il curriculum tagliando: ancora niente. Solo quando ho tolto la laurea ho trovato posto in un call-center. Dove, per inciso, ci sono altri sei laureati, uno addirittura in ingegneria”.

A completare il quadro c’è il pianeta dei co.co.co; tra cui Pierluigi, 32 anni, precario da 4, sposato: “I contratti di quelli come noi vanno da un massimo di sei mesi a un minimo di una manciata di ore. Pure mia moglie è precaria. Non abbiamo garanzie in caso di malattia o infortunio. Se volessimo fare un figlio, a norma di legge potremmo contare solo sul congelamento dello stipendio. Alla Cgil mi hanno spiegato che un nucleo familiare in cui entrambi i coniugi hanno contratti da precari rientra statisticamente sotto la soglia di povertà. E che me ne faccio? Mangio pane e statistica?”. C’è chi sta perfino peggio. Come Lorella, 29 anni, addetta alle pulizie: “L’impresa per cui lavoro non ti prende se non ti presenti come autonomo, quindi devi aprirti una partita Iva. Ma io guadagno 6 euro lordi all’ora: quando ho pagato i contributi, l’Irpef e l’Iva, mi ritrovo in tasca esattamente la metà. Per arrivare a fine mese devo per forza mettere insieme altri lavoretti”.

Luciano Gallino, sociologo, definisce questi lavoratori “nomadi multiattivi”. Un popolo di 3 milioni di persone in tutta Italia, che a fine mese arrivano a un salario netto tra i 600 e gli 800 euro. E anche chi ha il posto fisso e lo stipendio regolare, se la deve sudare: nel 2003, per la prima volta dopo 30 anni, le retribuzioni sono cresciute meno dell’inflazione; e una famiglia di 3 persone con due redditi medi di lavoro dipendente ha perso potere d’acquisto per 720 euro. Un piccolo spaccato nordestino lo si può trovare in una città industrializzata e benestante quale Vicenza: dove gli aiuti in denaro della Caritas per gli italiani superano di gran lunga quelli per gli immigrati, 38 per cento contro 28. E il 15 per cento di chi cerca disperatamente casa è  fatta da gente del posto, non da extracomunitari. Gente del Nordest.

 

Francesco Jori

da Il Gazzettino, settembre 2005

 

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