SOCIETÀ
Parlare di Isis ai bambini

Fiori e peluche per ricordare le vittime della strage di Nizza, in Francia. Foto: Reuters/Pascal Rossignol
Tra le parole entrate prepotentemente nel nostro vocabolario quotidiano ce n’è anche una che fa paura: “terrorismo”. La conoscono bene gli adulti, ormai anche i bambini. I piccoli ascoltano, vedono, elaborano informazioni che arrivano velocissime e colpiscono come un pugno in faccia per poi sparire e lasciare il posto alle successive. Si parla di Isis e poi si tenta di tornare in fretta alla normalità per non farsi mangiare dall’angoscia. Accanto a noi, in questo mondo, vivono i bambini, osservatori ma anche vittime di attentati. Non dimenticheremo facilmente quella bambola a terra, sistemata accanto a un corpicino senza vita nella foto scattata giovedì 14 luglio scorso, a Nizza, poco dopo l’ultimo attentato. Quella sera c’erano i fuochi d’artificio, c’era aria di festa e si passeggiava serenamente, in famiglia, sulla Promenade des Anglais senza poter immaginare cosa sarebbe accaduto.
“I bambini vedono, i bambini fanno”, children see children do recita un modo di dire anglosassone. E allora come si possono spiegare eventi scioccanti come questo? Cosa si dovrebbe dire a un bambino per evitare traumi a lungo termine e scie di paura e insicurezza? Parte da qui la riflessione di Alberto Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore all’università di Milano: un contributo, il suo, contenuto nel recente libro Parlare di Isis ai bambini (Erickson), curato da Dario Ianes, che contiene anche l’intervento di Edgar Morin e Riccardo Mazzeo (con un focus su questioni teorico-filosofiche tra dialogo e convivenza) e quello storico-culturale di Marco Montanari il quale, basandosi su fonti documentate, presenta la storia del terrorismo e le condizioni dei paesi arabi. Spesso, spiega Pellai, le immagini e le parole degli adulti attraversano la quotidianità dei bambini restando “rumore d’ambiente”, ma non è sempre così: “Siamo sempre più consapevoli che ciascuno di noi si trova a vivere una vita dalla natura multitasking, caratteristica che, per proprietà transitiva, è diventata un aspetto che contraddistingue la quotidianità dei nostri piccoli. Si mangia tenendo il televisore acceso in sottofondo, rispondendo a messaggi e telefonate che arrivano sui cellulari, si verifica una notizia sul proprio tablet e intanto si parla, si mangia, si vive. Ma le cose cambiano drasticamente quando le notizie che arrivano nel cuore della casa hanno a che fare con lo stragismo terroristico, con i grandi cataclismi, con quelle tragedie che accadono all’improvviso e coinvolgono nello stesso momento la vita e il destino di moltissime persone”. Cosa succede ai bambini quando questi fatti irrompono con prepotenza in casa, nel loro rifugio? E quale effetto hanno su di loro le immagini che raccontano quegli eventi? “Le narrazioni di eventi catastrofici (come un incidente aereo o un cataclisma naturale) – precisa Pellai – provocano le stesse identiche reazioni emotive in un bambino rispetto a quelle evocate da racconti di attentati e stragi compiuti per mani d’uomo. In entrambi i casi, egli percepirà un senso di vulnerabilità e paura derivati dal vedere il mondo come un luogo pericoloso e la vita come qualcosa di non prevedibile”.
La paura nasce nel momento in cui il bambino percepisce un senso di minaccia nei confronti della sua famiglia e della sua casa. Ed è per questo che i genitori rivestono un ruolo fondamentale. Così, in fase acuta, di fronte a un bambino rimasto traumatizzato da scene di panico e violenza, Pellai consiglia di intervenire con il contatto fisico, in grado di rassicurare e dare un senso immediato di calma e protezione: “Il linguaggio dell’abbraccio, che tiene e contiene, è universale e serve in ogni occasione in cui un bambino sente ansia, agitazione o paura. Queste emozioni sono caotiche per l’assetto e l’equilibrio del piccolo, perché lui non sa gestirle in autonomia. Ecco perché, quando le sperimenta, il suo primo movimento è quello di avvicinamento verso un adulto di riferimento con il fine di essere protetto stando in sua vicinanza e prossimità”. L’abbraccio può avvenire nel silenzio, le parole possono arrivare in un secondo momento. È inoltre molto importante mantenere la calma anche, e soprattutto, “quando tutto ci porterebbe a fare l’esatto contrario, ovvero arrabbiarci, allarmarci, spaventarci. Ma se siamo adulti, e di fianco a noi c’è un minore, non dobbiamo mai dimenticarci che questo per noi diventa un dovere. E per lui un diritto”. In particolare, avere un’espressione calma significa lavorare sul tono di voce senza eccessi di intensità, sulla postura del corpo che deve restare aperta, rilassata e accogliente, senza tensioni, e sull’espressione del volto perché “è il nostro viso, insieme alle sue infinite micromodificazioni involontarie, che dà informazioni sullo stato emotivo da cui veniamo abitati in alcuni momenti”. Quindi, per poter davvero rassicurare un bambino, l’adulto dovrà essere a sua volta realmente tranquillo, non fingere di esserlo. Dovrà aver raggiunto un buon livello di autoregolazione e autocontrollo.
Infine le parole, poche e giuste. Il bambino non riesce a descrivere i propri stati mentali ma l’adulto sì, ed è per questo che spetta a lui prenderlo per mano e traghettarlo da un territorio di paura a una zona sicura “dove non si può cambiare il passato, ovvero ciò che è successo, ma si può guardare al qui e ora, e soprattutto al futuro, con un relativo senso di sicurezza e fiducia, percependo che l’adulto sa proteggere, confortare, spiegare e accogliere tutto quello che per lui rappresenta un peso sul cuore […] Quei fatti sono terribili, ma qui, adesso, io e te, siamo al sicuro”. A posteriori, superata la fase acuta, sarà necessario intervenire anche per sfatare false credenze che potrebbero minacciare e limitare il senso di fiducia negli altri e il desiderio di scoperta del mondo. Il bambino dovrà continuare a crescere senza pensare che il mondo sia un luogo pericoloso in cui vivere, senza pensare che tutte le persone appartenenti all’etnia, alla religione o alla nazione dei terroristi siano pericolose e vogliano farci male, il futuro non deve fare paura. “La visione catastrofica del futuro è una dimensione che spesso gli adulti restituiscono a chi sta crescendo come un dato di fatto, come un elemento imprescindibile che connoterà il loro percorso di crescita […] ma di tutti i messaggi che possiamo dare ai nostri figli, quello correlato al mantenimento della continuità delle abitudini, della routine, dei nostri appuntamenti fissi, dei nostri incontri è certamente il più importante”.
In un video che ha fatto il giro della rete, all’indomani degli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, un giornalista intervista un bimbo, accompagnato dal suo papà sui luoghi delle stragi per portare un fiore alle vittime. Cercano di dare un senso all’accaduto, concludendo con questa riflessione: “They might have guns but we have flowers”. Non sarà sufficiente, ma è una carezza per il cuore.
Francesca Boccaletto