SOCIETÀ

Pensioni, cercasi 4 miliardi

E cosi alla fine Tito Boeri sarà il prossimo presidente dell’Inps: il Consiglio dei ministri ha dato il via definitiva alla sua nomina. Non un passaggio scontato per il professore ed economista milanese, all’attivo anni di esperienza presso le più importanti istituzioni mondiali (come OCSE, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Commissione europea e Ufficio internazionale del lavoro), ma noto anche per essere tra i fondatori della testata on line Lavoce.info.

Quello a cui Boeri è chiamato non è un compito facile. I conti dell’Inps, soprattutto dopo l’accorpamento con l’Inpdap, la cassa dei dipendenti pubblici, sono in rosso profondo: solo dal 2012 al 2014 l’Istituto ha accumulato perdite per almeno 30 miliardi di euro. Soldi che finora hanno dovuto essere ripianati dalla fiscalità generale. E il futuro non promette niente di buono, dato l’andamento dell’economia e della curva demografica. Uno squilibrio a cui, a detta di molti, non si può seriamente rimediare senza mettere mano alle pensioni già in erogazione, in gran parte calcolate con il più favorevole sistema retributivo. Secondo questo sistema infatti, definitivamente rimosso anche per i soggetti con elevata anzianità lavorativa solo dal governo Monti, il valore dell’assegno viene stabilito in rapporto all’ultimo stipendio percepito, anziché ai contributi effettivamente versati. Un metodo di calcolo molto più conveniente per il singolo, che però nel lungo periodo rischia di destabilizzare il sistema pensionistico.

Il nuovo presidente dell’Inps ha illustrato più volte la necessità di intervenire in quest’ambito in diverse interviste e scritti, tra cui un articolo pubblicato un anno fa assieme a Stefano Patriarca e a Fabrizio Patriarca. In questo Boeri affronta la questione di un possibile contributo di equità a carico delle pensioni più alte, soltanto per la parte in cui l’importo degli assegni superi effettivamente l’ammontare dei contributi versati. Secondo le stime presentate una misura del genere, che riguardi le pensioni oltre i 2.000 euro e con un’aliquota crescente a partire dal 20%, potrebbe generare dai 3 agli oltre 4 miliardi di euro annui di gettito, con costi sociali relativamente contenuti. Ad essere colpito sarebbe infatti solo il 10% dei pensionati con gli assegni più alti (compresi quelli che godono di più di una pensione), per un ammontare che dovrebbe aggirarsi tra il 3 e il 7% dei redditi individuali (solo gli ex dipendenti pubblici potrebbero avere una decurtazione vicina al 10%, in virtù del calcolo più favorevole di cui hanno goduto).

Una misura, quella di un contributo di solidarietà, non solo a rischio di impopolarità, ma anche di censure di legittimità e di costituzionalità: “La proposta di Boeri è intrigante, ma rischia di scontrarsi con il principio, più volte ribadito dalla Corte Costituzionale, secondo cui lo stato non può rinnegare le sue promesse”, spiega Guglielmo Weber, docente di economia presso l’Università di Padova con all’attivo numerosi lavori sull’economia dell’invecchiamento. “Si tratta di un principio importante, perché coloro che sono andati in pensione di anzianità lo hanno fatto in considerazione delle regole allora esistenti, e per lo più adesso non possono tornare sul mercato del lavoro”.

Proprio un precedente tentativo di introdurre una misura simile, operata dal governo Monti, fu bocciato dalla Consulta nel 2013, sulla base dell’assunto che tale provvedimento fosse discriminatorio per i pensionati. Un parallelo che però è rifiutato da Boeri, secondo il quale il provvedimento precedente ‘colpiva indiscriminatamente nel mucchio’, tanto da sembrare ‘fatto apposta per essere bocciato dalla Consulta’. Rimane comunque il problema di far passare un futuro provvedimento al vaglio delle varie autorità, giurisdizionali e amministrative. “Si è detto che la Corte potrebbe riconsiderare la questione se il particolare gettito fiscale ipotizzato da Boeri fosse devoluto alla stessa categoria – continua Weber – ad esempio per far fronte al crescente problema del Long Term Care (LTC). Attualmente esiste un assegno di accompagnamento per chi non è più autosufficiente, dall’importo modesto, e alcune forme di assistenza, ma non su tutto il territorio nazionale. Forse questa potrebbe essere una soluzione, ma resta il fatto che i pensionati potrebbero appellarsi all'art. 53 della Costituzione”. Il quale, ricordiamo, dice che ‘Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva’, e che ‘Il sistema tributario è informato a criteri di progressività’. Una norma che non distingue fra redditi da lavoro e da pensione, e proprio per questo è stato citato dalla Corte  per cancellare la tassazione sulle pensioni più elevate.

“Una soluzione alternativa potrebbe essere di rendere obbligatorio un contributo LTC per tutti coloro che sono in pensione, hanno meno di 80-85 anni di età e per la sola parte di reddito eccedente una soglia determinata (anche con aliquote crescenti). Un contributo analogo è stato introdotto in Giappone e Germania, e potrebbe tornare molto utile col passare del tempo. Ovviamente il gettito dovrebbe essere utilizzato per aumentare e migliorare l'offerta di LTC in forme da decidersi (assegno di accompagnamento, maggiore offerta di soluzioni assistenziali etc.), e per l'intera platea dei non autosufficienti (non solo i più poveri)”.

Per i giovani ci sarebbero due vantaggi: “Uno di minor tassazione, visto che il LTC qualcuno lo deve pur pagare, l'altro di maggior libertà, dato il minor impegno assistenziale in futuro. Questa però è solo un’idea di cui bisognerebbe valutare attentamente gli aspetti pratici: bisognerebbe simulare il gettito per diverse ipotesi contributive valutandone attentamente gli effetti, ad esempio quelli distributivi”. Il discorso insomma è aperto, anche se per il momento il premier Renzi nega che un contributo a carico dei pensionati sia all’ordine del giorno. Per il futuro, forse, si vedrà.

Daniele Mont D’Arpizio

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