SOCIETÀ
Il profumo dell'erba tagliata

Foto: Giorgio Leggio
Era il 1995 quando Toto Cotugno cantava il desiderio di scappare dalla frenesia e dal grigiore della città per tornare alla familiare essenzialità della campagna, ma già 30 anni prima, a metà degli anni Sessanta, Il ragazzo della via Gluck di Celentano aveva toccato corde sensibili. L'incredibile processo di cementificazione figlio del boom economico degli anni Cinquanta, infatti, è divenuto spesso un tema di denuncia da parte dei cantautori italiani che si trovarono spesso a contrapporre ai grattacieli e alle strade asfaltate i ricordi di una giovinezza trascorsa in armonia con la natura. Ma se dal punto di vista musicale il tema è ormai scontato, il problema del consumo di suolo, dati alla mano, è assolutamente attuale.
L'Italia ha perso solo negli ultimi venti anni il 15% delle campagne per effetto della cementificazione e dell'abbandono, che hanno ridotto di 2,15 milioni di ettari la terra coltivata. È l'allarme che Coldiretti ha lanciato lo scorso 22 aprile, in occasione dell’Earth Day che quest'anno ha affrontato il tema delle green cities. Ogni giorno viene sottratta terra agricola per un equivalente di circa 400 campi da calcio (288 ettari) e i 720 chilometri quadrati di cemento di cui l’Italia si è fatta carico negli ultimi tre anni hanno contribuito a portare il Paese in testa alla classifica europea nella produzione e nel consumo del materiale da costruzione. Oltretutto, il 30% del suolo cementificato è stato utilizzato per la costruzione di case che, quasi sicuramente, resteranno disabitate, andando a aggiungersi ai 2,7 milioni di abitazioni che già risultano vuote e invendute a causa della crisi. Stando a un dossier di Legambiente, il tasso di consumo di suolo negli anni Cinquanta era pari al 2,9%, mentre oggi è al 7,3% l’anno, con una crescita giornaliera di 0,7 chilometri quadrati, che diventano 255 chilometri quadrati all’anno (una volta e mezzo il Comune di Milano).
Ma a quanto pare è in aumento anche il numero di persone che ricercano una vita lontana dal caos dei grandi centri abitati, sia che questo significhi un po' più di natura attorno, sia che – più prosaicamente – l'obiettivo sia una casa più spaziosa ed accogliente, che ai prezzi correnti in città non ci potrebbe permettere.
Secondo alcuni dati emessi dal comune di Trieste nel 2013, per esempio, oltre 5000 abitanti in dieci anni hanno lasciato la città giuliana per andare a vivere in campagna, con una media di quasi 530 trasferimenti l’anno a partire dal 2003. Già nel 2012, tra Torino e province, oltre 12.000 giovani (di cui la metà sono donne) avevano rivalutato la vita bucolica, spinti dalla crisi, dalla generale precarietà occupazionale e dalla ricerca di forme di auto-sussistenza. Scelta per nulla così singolari: da alcuni dati pubblicati da Coldiretti, risulta addirittura che il 68% degli italiani, quindi due su tre, sognano di poter partecipare attivamente a vendemmie e raccolte della frutta: un'idea vicina ai temi della decrescita resi popolari in questi anni da Serge Latouche.
Via libera alla fuga dalle città, dunque? Non proprio: altri dati indicano che il processo di abbandono delle aree rurali e dei piccoli centri è tutt'altro che esaurito, al saldo di chi vi si trasferisce oggi, sia nel nostro paese che altrove. Stando a un articolo del Guardian basato su dati Ocsi (Oxford Consultants for Social Inclusion), per esempio, attraverso un’indagine tra i cittadini inglesi si può facilmente notare come chi viva fuori città sia più vecchio di chi si è insediato in zone più centrali. Circa il 23% dei residenti in aree rurali sono di età pensionabile, contro il 18% di chi vive in zone urbane. Oltretutto, viene evidenziato come la popolazione delle zone rurali stia invecchiando rapidamente, ben più del tasso medio della popolazione: tra il 2001 e il 2007, gli abitanti non più in età lavorativa sono aumentati del 15% nelle aree periferiche, a fronte di un aumento del 4% del numero di anziani che vivono in città. Distanze, servizi e collegamenti meno presenti, tempi che si allungano per ogni cosa e spese per gli spostamenti giocano il loro ruolo nel portare o riportare in città chi ha orari di lavoro lunghi, bambini da gestire, impieghi che richiedono pronta disponibilità nella giornata e così via. Ma la vita agreste porta realmente con sé dei benefici visibili, allora?
Per me, è presto detto. Sono nata, cresciuta e tuttora vivo in una casa in campagna, in cui due nonni instancabili gestiscono da più di quarant’anni una piccola fattoria. Mi hanno insegnato le periodicità delle semine, come le fasi lunari influenzino l’agricoltura, quale sia il reale valore di un chilo di zucchine (così poi al mercato non ti abbindola nessuno!), i segreti per ottenere il vino buono e il rispetto per il tempo, che è un delicato, magico equilibrio tra pazienza e ingegno. Quando eravamo piccole, io e le mie sorelle giocavamo in giardino e ci arrampicavamo pure sugli alberi, con buona pace delle madri ipocondriache di oggi. Nessuna di noi ha mai neanche lontanamente sofferto di teledipendenza o sindrome da vuoto digitale e mangiare frutta non trattata chimicamente non ci ha mai provocato intossicazioni alimentari di nessun tipo, anzi! Incoscienza, pazzia? Forse.
Ma in questo modo ho un'idea abbastanza chiara di cosa scopra chi in campagna si trasferisce e cerca una vita differente, e anche anche di cosa risulti, alla fine, insopportabile a chi, dopo una vita o dopo pochi mesi, decide che non fa per lui.
Di certo aveva ragione Pavese: per apprezzare la campagna “bisogna averci fatto le ossa, averla nelle ossa come il vino e la polenta”. E io, tra il vino e la polenta, ci sono cresciuta.
Con grande pena per chi, quando ne parlo, non riesce a capirmi. E con grande simpatia per chi cerca di conquistarsela, e comprensione per chi non ce la fa.
Gioia Baggio