SOCIETÀ

Quando gli economisti sbagliano

Dopo la polemica sullo studio di Reinhart e Rogoff, due dei più influenti teorici dell’austerity, fino a che punto la politica può delegare agli esperti l’analisi della crisi e la ricerca di vie di uscita? Ne parliamo con Marco Gambaro, docente di economia alla Statale di Milano.

Tra gli economisti in rete è l’argomento principale: alcuni dati contenuti nel paper Growth in a Time of Debt, dei due autorevoli economisti di Harvard Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, sarebbero sbagliati. Non una ricerca qualsiasi ma una delle bibbie dell’austerity, citata per sostenere la politica dei tagli ai bilanci statali da diversi decision maker, tra cui il commissario europeo Olli Rehn.

In realtà il problema è: quanto possiamo fidarci degli “esperti”, in particolare degli economisti, nell’analisi della crisi e soprattutto nella ricerca delle vie d’uscita? Ne abbiamo parlato con Marco Gambaro, docente di economia dei media e della comunicazione alla Statale di Milano: “Il problema generale è quello di un maggior controllo e replicabilità delle ricerche in ambito econometrico, esattamente come avviene negli altri settori scientifici. Non sempre ad esempio i dati sono disponibili on line, e a volte c’è addirittura una ritrosia a fornirli agli altri studiosi”.

Gambaro comunque nel caso specifico è attento anche a relativizzare l’impatto del singolo episodio: “Lo studio di Reinhart e Rogoff è stato influente, ma fa parte di un filone assieme ad altri lavori. Anche nell’articolo originale inoltre era già spiegato che la famosa soglia del 90% nel rapporto debito-Pil era indicata come un punto di riferimento arbitrario. Alla luce di queste verifiche comunque alcune delle deduzioni degli autori sembrano oggi difficili da dimostrare”.

Qual è allora la relazione tra debito pubblico e crescita? “Si tratta di una materia molto ampia e difficile. Nel lavoro oggi contestato veniva argomentata una relazione, non un nesso causale tra i due fenomeni, che potrebbe essere reciproco o addirittura inverso. È ovvio ad esempio che gli interessi crescano all’aumentare del debito, quest’ultimo però sale anche a causa di un basso livello di crescita. In generale è difficile individuare una causa in una situazione dove non è possibile fare esperimenti, questo però è un problema che riguarda tutte le scienze sociali”.

Concretamente è vero o no che l’austerity è la soluzione per uscire dalla crisi? “Non ci sono ricette generali – asserisce Gambaro –, nel breve periodo i tagli deprimono l’economia, ma a volte sono necessari. In un periodo di recessione però possono aggravare il problema, se abbassano il livello di crescita e impediscono di ripagare il debito: in questo caso si rischia di darsi la zappa sui piedi”. Quindi nessun limite alla spesa e alla possibilità di stampare denaro? “No, la soluzione non può essere una continua espansione monetaria. Le economie crescono con l’innovazione e l’aumento di produttività, non con le svalutazioni competitive”. Il problema è che oggi è difficile trovare risorse aggiuntive: “I tagli mirati sono difficili da un punto di vista politico, mentre con quelli orizzontali non si abbattono le rendite che impediscono la crescita. D’altro canto focalizzarsi sui tagli durante la recessione è anche socialmente pericoloso, perché si rischia di deprimere la domanda, dalla quale dovrebbe ripartire la ripresa. In sostanza sia l’austerità che la spesa pubblica sono opzioni che perseguite nei loro estremi rischiano di essere dannosi. Bisogna tenere conto delle cure ma anche del malato!”.

Quanto influisce però l’euro sul perdurare della crisi? “Per l’Italia mi sembra che il problema non sia questo: onestamente credo che i vantaggi della moneta unica superino di molto quelli delle svalutazioni strategiche di un tempo. Queste nel breve periodo danno un’overdose di competitività, ma nel lungo sono più dannose più di quanto appare. Il problema è che una volta entrato nell’euro il paese avrebbe dovuto modernizzarsi, affrontando nodi come ad esempio la giustizia civile, la pubblica amministrazione e l’innovazione. Purtroppo però l’Italia ha tante rigidità e problemi strutturali, che certo non potrebbero essere risolti con il ritorno alla lira”.

Daniele Mont D’Arpizio                                                           

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