SOCIETÀ

Le streghe uccidono davvero. Se credete al loro potere

Inghilterra, estate 2012. Mentre dagli schermi di tutto il mondo svaniscono  le immagini dei Giochi olimpici di Londra, trecento chilometri a nord-ovest della capitale britannica la città di Lancaster celebra con mostre e visite guidate un lugubre anniversario: qui, giusto quattro secoli fa, il 18 e il 19 agosto 1612, diciannove persone, uomini e (soprattutto) donne, vennero processate per stregoneria e dieci di loro, giudicate colpevoli, furono prontamente impiccate il giorno dopo. Processi simili non erano rari, allora, ma quello alle streghe di Pendle (dal nome della località di provenienza degli imputati) ebbe – come ha notato sulla “Guardian Review” lo scrittore e poeta Blake Morrison – particolare importanza, sia per il numero insolitamente alto di persone coinvolte, sia perché il cancelliere del tribunale, Thomas Potts, pubblicò un resoconto delle udienze, The Wonderfull Discoverie of Witches in the Countie of Lancaster, che – scrive Morrison – “ci offre una prospettiva affascinante sui procedimenti legali e sugli orientamenti socio-religiosi dell'epoca”. 

Le streghe, per esempio. Dimentichiamo scope e bacchette magiche. Ci sono, certo, i pupazzi trafitti da spilloni, i sortilegi, le voglie sulla pelle, segni sicuri di un'impronta demoniaca. Ma poi Satana preferisce alla maschera un po' ridicola del diavolo cornuto la forma familiare di un cane o di una lepre, e la magia entra in azione per cose banali, “quando qualcuno si comporta in modo meschino o intemperante e si attira un maleficio in cambio”. E così, con uno sgarbo,  comincia la vicenda del Lancashire: un anziano venditore ambulante si rifiuta di dare degli spilli a una ragazza che, indispettita, lo maledice. Ognuno riprende la sua strada ma, fatti pochi passi, il vecchio cade a terra. E dato che mamma e nonna della giovane Alizon sono note per preparare filtri e pozioni a pagamento, nessuno dubita che il collasso sia dovuto alla sua maledizione. Nessuno, né l'uomo, né la ragazza che, condotta davanti al magistrato dal figlio dell'ambulante, si dichiara spontaneamente colpevole di stregoneria e per buon peso denuncia una folla di altra gente.

Non sono (solo) storie del passato. Le associazioni che nel Lancashire ricordano il processo mettono in luce l'esistenza anche oggi di vere “cacce alle streghe”, come quelle che in alcuni paesi africani hanno per vittime bambini, emarginati e maltrattati perché vengono loro attribuiti poteri soprannaturali negativi. In un documento Unicef dedicato al fenomeno, la ricercatrice Aleksandra Cimpric rileva che per sradicare queste pratiche è essenziale prima di tutto capirne il contesto e che la stregoneria non è solo “un insieme di credenze strutturate e condivise da una determinata popolazione”, come l'ha definita Marc Augé, ma “una teoria che spiega e giustifica una concezione dell'universo”. 

Una concezione così potente, da poter essere letale, e lo dimostra – in altro ambito – la ricerca dell'antropologa americana Shelley Adler sulla misteriosa morte nel sonno, all'inizio degli anni '80, di centinaia di Hmong laotiani, emigrati negli Usa. A uccidere questi uomini nel fiore dell'età sarebbe stata, secondo la studiosa, la loro paura delle figure malvagie che popolano gli incubi. “All'interno di un sistema di credenze in cui gli spiriti cattivi hanno il potere di uccidere chi non adempie ai suoi obblighi religiosi, il Hmong isolato, confrontato con il terrore del 'visitatore notturno' e convinto dei suoi intenti omicidi, può morire in modo inatteso”, scrive Adler nel suo Sleep Paralysis: Night-mares, Nocebos, and the Mind Body Connection (Rutger 2011).

Fin dal titolo, nel libro gioca un ruolo importante il concetto di “nocebo” che non ha goduto finora della stessa fortuna del suo opposto, il rassicurante “placebo”: l'idea che le credenze negative ci condizionino è fastidiosa ma, pare, fondata – e non solo per i Hmong espatriati o i vecchi ignoranti nell'Inghilterra del Seicento. Tre ricercatori dell'università di Monaco, Winfried Häuser, Ernil Hansen, Paul Enck, hanno pubblicato su “Aerzteblatt” un articolo sulla rilevanza del “nocebo” nella pratica medica quotidiana. Gli esempi sono numerosi, dai pazienti che, ammoniti sui possibili – ma improbabili – effetti indesiderati di un farmaco, li sperimentano tutti, all'aspirante suicida che ingoia 26 pastiglie convinto che si tratti di un antidepressivo e rischia davvero di morire, finché non gli dicono che era zucchero (e si risana subito). I medici tedeschi rilevano le implicazioni etiche della questione: con un malato è meglio parlare o tacere? E se si parla, come evitare l'effetto nocebo? Problemi che la povera Alizon, a suo tempo, non si pose – fiera, anzi, dei suoi (presunti) poteri, senza immaginare che alla resa dei conti la vittima sarebbe stata lei.

 

Maria Teresa Carbone

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