SOCIETÀ
Trivelle, il referendum invisibile tra politica, affari e ambiente

Una piattaforma petrolifera
Cominciamo con una notizia: il 17 aprile gli italiani sono chiamati alle urne per un referendum. Se ne sta parlando pochissimo, e sarebbe interessante sapere, a meno di un mese dall’appuntamento, quante persone ancora lo ignorano. Ma ancora più oscuro è l’oggetto della consultazione: eppure si tratta di una questione rilevante, che riguarda le politiche energetiche ed ecologiche del nostro Paese. A metà del mese prossimo gli italiani dovranno decidere se abrogare una parte dell’articolo 6 comma 17 del decreto legislativo 152/2006, un testo che raccoglie numerose disposizioni in materia ambientale; in particolare, agli elettori si chiede se vogliono eliminare dall’ordinamento la norma che permette di prorogare le concessioni per la ricerca ed estrazione di idrocarburi in mare, entro 12 miglia (circa 22 km) dalle coste italiane.
Più chiaramente: allo stato attuale, nel tratto di mare considerato, la normativa (modificata più volte, da ultimo con la legge di Stabilità 2016) non permette il rilascio di nuove autorizzazioni, ma consente che l’attività estrattiva, per le società che hanno già titolo per operare, possa essere prolungata finché il giacimento non è esaurito. Con le norme in vigore quindi, allo scadere della concessione, le società possono chiedere di continuare a cercare ed estrarre gas o petrolio (previa valutazione di impatto ambientale) fino a che vi siano risorse naturali da utilizzare. Qualora vincesse il “sì”, invece, le stesse società, una volta scaduta la concessione (di norma trentennale), dovrebbero concludere le operazioni immediatamente, anche se il giacimento è ancora sfruttabile.
Il quesito, insomma, non può incidere sul “se” continuare le trivellazioni, ma sul “fino a quando”. Né vengono toccati dal referendum gli impianti presenti sulla terraferma o a più di dodici miglia dalla costa. È però evidente che il segnale politico, in caso di vittoria del “sì”, sarebbe notevole. Il referendum nasce dall’iniziativa di dieci consigli regionali (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Veneto), poi ridottisi a nove per il ripensamento dell’Abruzzo. In realtà i quesiti proposti inizialmente erano sei, ma cinque sono stati dichiarati “improcedibili” dalla Corte Costituzionale sulla base della pronuncia della Cassazione, la quale li aveva ritenuti superati dagli aggiornamenti normativi.
All’iniziativa delle Regioni si affianca il comitato “Vota sì per fermare le trivelle”, costituito da una rete di associazioni, sindacati e altri soggetti tra cui Arci, Confederazione italiana agricoltori, Fiom, Greenpeace, Legambiente, Slow food, Touring club italiano, Wwf. La saldatura tra i due mondi si fonda sull’accusa al governo di perseguire una politica energetica e ambientale di stampo centralistico, eludendo il ruolo delle autonomie locali. La componente più “politica” del comitato è il Coordinamento No Triv, che si spinge a una critica molto forte dell’insieme del progetto di riforma costituzionale governativo, che definisce “una svolta autoritaria”.
Il fronte del “sì” è compatto sulla polemica contro la decisione del governo di individuare una data per il referendum separata da quella delle elezioni amministrative: l’accorpamento, secondo gli “anti-trivelle”, avrebbe favorito visibilità e affluenza al voto, mentre per il ministro dell’Interno la data unica non era possibile senza una specifica legge che disciplinasse la convergenza delle votazioni. Le ragioni su cui “Fermare le trivelle” fonda il suo “sì” sono la scarsa incidenza dell’industria estrattiva sul fabbisogno energetico nazionale e in generale sull’impatto economico nel Paese, a fronte dei pericoli per l’ambiente (si vogliono tutelare la biodiversità marina e la pesca e prevenire eventuali incidenti) e del limitato impegno verso i temi del risparmio energetico e della promozione delle energie rinnovabili. Il “sì” ritiene poi le trivellazioni un affare soprattutto per le industrie concessionarie, dal momento che le percentuali sugli introiti (royalties) che devono essere versate allo Stato sarebbero molto basse.
Sull’altro fronte, il soggetto più impegnato contro la proposta referendaria è “Ottimisti e razionali”, un gruppo di imprenditori, politici e intellettuali tra i quali spiccano Umberto Minopoli (presidente dell’Associazione italiana nucleare), Chicco Testa (Presidente di Assoelettrica), Ernesto Auci (ex direttore di Il Sole 24 Ore) Gianfranco Borghini, Rosa Filippini (Amici della Terra), Andrea Moretti (Assobiotec). “Ottimisti e razionali” afferma che l’industria estrattiva è molto meno inquinante di altri comparti, e che l’abbandono delle trivellazioni comporterebbe una maggiore dipendenza energetica dall’estero; senza contare che il “sì” determinerebbe lo stop all’estrazione in impianti che sono già in funzione: il mancato utilizzo delle risorse non sarebbe quindi compensato da alcun reale beneficio ambientale. Quanto ai vantaggi economici per lo Stato, si obietta che il sistema combinato di royalties, canoni di concessione e imposizione fiscale renderebbe gli introiti pubblici equiparabili a quelli degli altri Stati europei.
Riuscirà il referendum a conquistare l’attenzione dei principali media nelle prossime settimane? Con il meccanismo del quorum (la consultazione è valida solo se si reca alle urne la maggioranza degli aventi diritto) per i promotori è vitale mobilitare il maggior numero possibile di cittadini, mentre i fautori del “no” possono puntare anche su una strategia più agevole e consolidata ormai da anni: l’astensionismo, che farebbe fallire il referendum lasciando quindi la norma inalterata. Ma è sperabile che le ragioni dell’una o dell’altra parte prevalgano grazie al verdetto delle urne.
Martino Periti