SCIENZA E RICERCA

Tutela della biodiversità: il lungo viaggio lungo la "Panamericana"

Un viaggio on the road di 80.000 chilometri lungo la Panamericana, per documentare la perdita di biodiversità attraverso l’intero continente americano, dando voce a progetti di coesistenza e storie di resistenza e di rinascita che esperti e comunità locali hanno messo in piedi per contrastarla. È questa la missione del progetto WANE - We Are Nature Expedition ideato dalla naturalista e politologa Valeria Barbi, che a luglio 2022 è partita con il fotografo e videomaker Davide Agati e l’impavido cagnolino Thabo, a bordo del van attrezzato a ridotte emissioni ribattezzato aVANscoperta.

Da Prudhoe Bay in Alaska a Ushuaia in Argentina, la Panamericana attraversa tutti i biomi esistenti, dalle foreste alle giungle, dai deserti alle montagne, dalle spiagge alle praterie, passando per ghiacciai, laghi, paludi e fiumi, sempre costeggiando l’oceano Pacifico. La Panamericana insomma offre lo spaccato perfetto per documentare la perdita di biodiversità, ma non è questo l’unico motivo per cui Barbi l’ha scelta per la sua WANE expedition: "È soprattutto un crocevia di culture e tradizioni difficilmente riscontrabile in altri luoghi del Pianeta, attraversa un panorama enorme di quelli che sono gli effetti dell’attività umana sulla natura, è stata ed è ancora teatro di di battaglie politiche ed economiche, teatro delle rivendicazioni di popolazioni indigene di varie etnie. Il percorso perfetto per mettere in discussione il rapporto uomo-natura di stampo occidentale e imparare nuovi modi di coesistenza".

Così, dopo 22 mesi di viaggio e 14 paesi attraversati, e dopo aver piantato una foresta in Guatemala per compensare le emissioni del viaggio, abbiamo raggiunto e intervistato Valeria Barbi per farci raccontare alcune delle realtà più significative che ha documentato dall’altra parte dell’Atlantico.

la Panamericana attraversa tutti i biomi esistenti, dalle foreste alle giungle, dai deserti alle montagne, dalle spiagge alle praterie, passando per ghiacciai, laghi, paludi e fiumi, sempre costeggiando l’oceano Pacifico

Il viaggio è cominciato tra i paesaggi incontaminati dell’Alaska, terra di grizzly e caribù, ma anche terra dove si risuona ancora l’eco del disastro della Exxon Valdez, la petroliera incagliatasi nel 1989 lungo la penisola di Kenai…

“L’Alaska è una terra di contrasti: uno di quei luoghi dove ancora si può respirare la presenza di una natura ancora parzialmente incontaminata, come la foresta pluviale temperata della Tongass National Forest, dov’è facilissimo incontrare esemplari emblematici della fauna selvatica, dai grizzly all'orso nero, ai caribù, in un paesaggio mozzafiato. Siamo arrivati lì, nel sud del paese, a settembre quando la tundra iniziava ad esplodere di rosso. Però l’Alaska è anche terra di cambiamenti climatici: si sta scaldando quattro volte più in fretta rispetto alla media globale. Ed è anche teatro di una corsa alle sue risorse minerarie, petrolio per lo più. Nella panisola del Kenai, luogo del disastro della Exxon Valdez, ci siamo imbarcati su un peschereccio - due strati di pile e un termos di caffè caldo stretto tra le mani - e abbiamo avuto la fortuna di incontrare il pod di orche AT1, con la loro matriarca Chenega, nata nel 1965. Il disastro petrolifero ha reso sterile lei e le altre femmine del branco: quando moriranno, con loro scomparirà anche il dialetto unico con cui comunicano.

Nonostante il disastro, però, qui la corsa al petrolio non si è mai fermata: North Slope ospita una delle più grandi riserve di petrolio a livello globale, in un territorio di 40.000 km quadrati, dove vivono circa 40 comunità indigene oltre alla fauna selvatica iconica del luogo. E se il giacimento verrà sfruttato con il progetto Willow della ConocoPhillips si calcola che nei prossimi trent’anni verrebbero rilasciati in atmosfera ben 260 milioni di tonnellate di CO2”.

Deforestazione e perdita di habitat sono invece il traino della perdita di biodiversità in Centro e Sud America: non c’è però solo l’Amazzonia. Cosa accade in Centro America?

“Quando arrivi in Centro America nel giro di due chilometri passi dalla foresta pluviale rigogliosa a un paesaggio totalmente devastato dalla deforestazione per far posto non agli allevamenti ma… alla monocoltura di palma da olio! Spesso si associa l’olio di palma al Borneo e agli oranghi, ma questo prodotto è foriero di devastazione anche in paesi come il Guatemala che negli ultimi 20 anni ha cancellato il 30% delle sue foreste pluviali per far spazio a distese di palma da olio. Qui la perdita di habitat è una delle più evidenti di tutto il pianeta e ha effetto non solo sulla biodiversità, ovviamente, ma anche sulla sopravvivenza di tradizioni e culture indigene. Quello che rimane della popolazione maya - il cui genocidio è finito solo negli anni ‘90 - vive per lo più sotto la soglia di povertà, nel cosiddetto corridoio arido del Centro America, dove il clima arido e siccitoso e la crisi climatica si sommano facendo scomparire le risorse idriche. Dal Centro America in giù, invece, la deforestazione è legata all’allevamento: la foresta scompare con la tecnica del taglia e brucia, una tecnica tradizionale indigena, che con la crisi climatica sfugge di mano alle popolazioni locali e che viene utilizzata dai grandi proprietari locali”.

Conosciamo bene il legame tra deforestazione, allevamento di bovini e coltivazione di soia in Sud America, specialmente in Amazzonia, ma è tutto qui o c’è dell’altro?

“Innanzitutto dobbiamo ricordarci che Amazzonia non è sinonimo di Brasile: questa foresta pluviale copre circa il 40% del Sud America e abbraccia 9 paesi. È una regione immensa e il problema non sono solo gli incendi appiccati con la tecnica del taglia e brucia per far posto a coltivazioni di soia, come mangime per il bestiame, o all’allevamento. Molto spesso dietro gli allevamenti si nascondono traffici illegali, in pochi conoscono il legame che c’è tra deforestazione per l’allevamento e traffico di droga: la narcoganaderia, dove ‘ganaderia’ sta appunto per ‘allevamento’ in spagnolo.

Qui il traffico di droga - per lo più cocaina - è responsabile di una percentuale che varia dal 15 al 30% della perdita annuale di foreste, spesso in aree protette, con la tecnica del taglia e brucia. In questi casi l’allevamento costituisce una vera e propria copertura per la coltivazione ed esportazione di cocaina e se i trafficanti-allevatori vengono beccati dalle forze dell'ordine, la pena di solito riguarda solo l'allevamento illegale di bestiame all'interno di un'area protetta.

Allevamento e deforestazione in Amazzonia, poi, sono legati anche a un altro mercato: l’industria della pelletteria. È un legame, quello tra la pelletteria e la deforestazione in Sud America, meno noto e meno immediato, ma da vertigine: pellame e cuoio non servono solo nel comparto della moda, per borse e scarpe, ma vengono utilizzate soprattutto nel mercato automobilistico per gli interni delle auto di lusso. E Italia ed Europa sono tra i grandi acquirenti di pellame proveniente dal Sud America”.

Poco noto è anche il legame tra deforestazione in Amazzonia e petrolio…

“Si, in quel caso parliamo di Ecuador: la foresta amazzonica ecuadoriana è stata - ed è ancora - il teatro di uno dei più grandi disastri ambientali della storia ad opera della multinazionale petrolifera Chevron-Texaco, che ha operato nel luogo tra il 1964 e il 1992, lasciando aperte circa 800 piscine di petrolio che continuano a sversare nell’Amazzonia ecuadoriana settentrionale, contaminando acqua e terreni. È una cosa di cui si parla pochissimo (nonostante a causa dell’inquinamento si siano estinte ben due popolazioni indigene), ma il popolo ecuadoriano sta lottando per i suoi diritti e per tutelare l’ambiente: nell’agosto 2023 c’è stato un referendum per votare per il futuro del Parco nazionale Yasuní, uno dei luoghi più ricchi di biodiversità al mondo: il 59% della popolazione ha votato per lo stop alle trivellazioni. Una decisione che però il neoeletto presidente Daniel Noboa sta ignorando”.

In questi 22 mesi in viaggio hai incontrato moltissimi attivisti ed attiviste, ranger e persone che si occupano di combattere la perdita di biodiversità, tutelare e preservare la natura…

“Si, abbiamo intervistato decine di custodi di specie ed ecosistemi, lungo tutta la Panamericana. Tra le storie che mi più hanno colpito ci sono gli esperti della Costa Rica wildlife foundation (Crw), che monitorano i rari tapiri di Baird, e che ci hanno portato a cercare la rana arboricola Tlalocohlya celeste, scoperta solo un paio di anni fa da una guida naturalistica locale. O ancora, chi come il ranger Marco Uzquiano rischia la sua vita ogni giorno tra minacce di bracconieri, minatori e taglialegna per proteggere il Parco Nazionale di Madidi, in Bolivia. Madidi, secondo l’IUCN, è il luogo con la maggiore biodiversità al mondo, per molti è anche il luogo più pericoloso, perché per lo più inesplorato, e ricco di specie sconosciute, batteri compresi. Ma qui le comunità indigene si sono riunite per dare vita a dei progetti di turismo comunitario, che ovviamente è un turismo molto di nicchia, ma consente ai popoli indigeni di vivere nelle loro terre, monitorando e proteggendo la foresta da estrazioni minerarie e deforestazione. E ancora, nella regione del Sucumbios, in Ecuador, dove un milione e mezzo di ettari di giungla risultano tuttora contaminati dal petrolio, alcuni abitanti della regione hanno dato vita all’Unión de Afectados y Afectadas por las Operaciones Petroleras de Texaco, e continuano a portare avanti la loro battaglia legale per difendere il loro diritto alla salute e all’accesso a risorse d'acqua potabile. Infine una storia che mi commuove sempre è quella di Rewilding Argentina, nata dall’impegno di Douglas Tompkins, multimiliardario, ecologista e fondatore di North Face. Questa è davvero una storia di rinascita: oggi in queste terre, grazie al lavoro di rewilding, dopo 70 anni sono tornati a correre i giaguari Il Parco Iberá più di 700.000 ettari lontra di fiume gigante, ara, tapiri, lupo dalla criniera, il cervo della pampa, gattopardo (ocelot), Tiranno codastrana”.

 

WANE - We Are Nature Expedition è nata proprio per testimoniare le due facce della medaglia: perdita e resistenza, distruzione e speranza. Eri pronta a documentare storie di deforestazione, perdita di habitat, inquinamento, ma anche storie di rinascita… Qual è stata l’esperienza che non ti aspettavi?

“Sicuramente l’incontro con i bracconieri a Playa Majagual, in Nicaragua. Ci eravamo fermati con il nostro van nei pressi della spiaggia, lungo le coste dove nidifica la tartaruga olivacea (Lepidochelys olivacea), una specie a rischio di estinzione, che come le altre specie di tartarughe marine soffre l’inquinamento da plastica, i cambiamenti climatici, e il bycatch: le catture accidentali. Appena è calato il buio abbiamo cominciato a vedere file e file di persone, uomini, donne, bambini, arrivare con dei secchi in mano. Erano tortugheros, bracconieri di uova di tartaruga… hanno cominciato a scavare i nidi, raccoglievano tutte le uova - circa 90  per nido - bloccavano le tartarughe adulte che erano risalite sulla spiaggia e le schiacciavano e spremevano per ottenere le uova, le prendevano a calci e uccidevano i cani randagi se abbaiavano: ero immersa in una scena di violenza incredibile. Per documentare quel massacro, dove nessun uovo veniva lasciato nei nidi, mi sono finta un’ingenua turista americana curiosa: solo così mi hanno lasciata avvicinare, hanno risposto a qualche vaga domanda e sono riuscita a scattare di nascosto qualche foto. Lì le tartarughe vengono uccise per la loro carne, ma le uova valgono di più: vengono date da mangiare ai bambini, si ritiene che aiutino il loro sviluppo, e che invece per gli adulti siano utili per il vigore sessuale. Carne e uova di tartaruga poi vengono vendute al mercato per i turisti: 12 uova costano circa 10 dollari e in un paese dove il salario medio è di 360 dollari, con la vendita illegale delle uova di un nido si arriva a 470 dollari. Mentre in altri paesi del Centro America la minaccia principale per questa specie arriva dalla distruzione dell’habitat e dalla cementificazione delle coste per l’espansione turistica, in Nicaragua il pericolo principale è l’intenso bracconaggio”.

Eri pronta ad assistere, a vivere, situazioni come queste tra bracconaggio, deforestazione e danni da inquinamento?

“Pensavo di essere pronta, per tutto quello che ho studiato. Ma mi sono dovuta ricredere: vivere certe situazioni non può lasciarti indifferente, cambia completamente il tuo modo di vivere e la tua prospettiva sul mondo. Molte volte mi sono sentita impotente, ne andava anche della nostra sicurezza… ti rendi conto che dall’altra parte ci sono persone stremate, mosse dalla povertà o dall’ignoranza, o da entrambe. Ma tuttǝ coloro che abbiamo incontrato e intervistato lungo questa strada tra due continenti, a cui ho chiesto se si può salvare la natura, se si può restare positivi, mi hanno risposto - in un modo o nell’altro - che non abbiamo alternative. Se non tentare. Dobbiamo farci guidare dalla scienza, che ci permette di continuare a porci delle domande e trovare risposte; dall’empatia verso gli altri esseri viventi, elemento imprescindibile della nostra esistenza; e dalla speranza che rinnova il desiderio di camminare in una foresta in cui decine di occhi diversi ci osservano in silenzio o di tuffarci in mari e oceani abitati da creature antiche.

È importante capire che tutto quello che facciamo, ha un effetto farfalla, positivo o negativo. Ed ecco perché ora tutto il materiale che abbiamo raccolto con WANE - We Are Nature Expedition, tutto il bagaglio di esperienze e di vissuto, vogliamo restituirlo, condividerlo con quante più persone possibile. WANE è già diventato una serie di incontri, con la popolazione e con le scuole, e diventerà presto anche una miniserie di documentari, una mostra multimediale itinerante con eventi e conferenze che partirà nella primavera prossima, e diventerà anche un libro, che uscirà presto con Laterza”.

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