SOCIETÀ
Womenomics: la rivoluzione tradita

Pubblico in grande spolvero e sala gremita per la serata della “Womenomics” a Padova. Relatrice Daniela Del Boca, autrice del libro Valorizzare le donne conviene: ma il titolo più azzeccato, ha detto l'economista, sarebbe stato “La rivoluzione bloccata. La rivoluzione economica delle donne”. Una rivoluzione ben pettinata e ben vestita si direbbe, a guardare il pubblico convenuto per l'evento: pubblico attento, interessato, partecipante ma, ahinoi, quasi esclusivamente femminile. Come se il problema della condizione occupazionale ed economica delle donne italiane fosse, appunto, un problema solo femminile.
Per dimostrare il contrario – perché “valorizzare le donne conviene” a tutti -, Del Boca è partita proprio da quel titolo mancato: La rivoluzione bloccata. Se infatti la rivoluzione legata all’istruzione femminile è quasi compiuta (le donne si laureano prima e meglio degli uomini), quella sul lavoro è rimasta fortemente incompiuta, mentre in famiglia la donna è vittima di una rivoluzione che Del Boca definisce “tradita”. Per spiegare meglio quelli che a prima vista sembrano degli slogan, la docente proietta in sala una serie di grafici, il primo dei quali rivela come la percentuale delle laureate abbia superato ormai dal 2001 quella dei laureati maschi. Il problema sta in quel che accade dopo, sul mondo del lavoro: la percentuale di occupazione delle donne in generale, in Italia, è estremamente bassa: nel 2010 era pari al 48% della popolazione femminile tra i 20 e i 34 anni. Se guardiamo ai risultati post-universitari, a quattro anni dalla laurea il 23% delle donne risulta ancora disoccupato, contro il 14,8% degli uomini (ISTAT 2011).
Secondo i dati di Almalaurea, inoltre, a cinque anni dalla laurea le donne, a parità di condizioni (facoltà seguita, anno di laurea, votazione, età), guadagnano circa il 30% in meno dei colleghi maschi, restando fortemente sottorappresentate nei settori scientifici, che, in ogni caso, sono i meglio retribuiti.
Sono dati che collocano l’Italia dietro la Spagna e dietro la Grecia. Anche per quelle donne che hanno un impiego soddisfacente, si osserva una spiccata difficoltà a far carriera: solo il 50,2% delle società quotate in borsa ha al suo interno almeno una donna e nei consigli di amministrazione le donne non superano il 7%.
I problemi peggiorano quando entra in ballo la maternità. Alla nascita del primo figlio circa un quarto delle lavoratrici lascia il lavoro per non farvi più ritorno, come si evince dal grafico di Figura 2. Se in tutti gli altri paesi europei, all’aumentare dell’età dei figli, corrisponde un reinserimento nel mondo lavorativo, in Italia questo non avviene, o accade solo a donne di elevata istruzione, assunte in grandi imprese che vivono in aree geografiche dotate di molti servizi.
Avere molti figli poi, chiaramente, peggiora le cose, anche se il trend resta lo stesso. In proporzione si osserva che il tasso di decrescita occupazionale è lo stesso nei diversi paesi europei, a parte il caso anomalo della Svezia per cui le donne con due figli lavorano percentualmente in numero maggiore rispetto a quelle con un solo figlio. La grande differenza di base sta nel dato di partenza dell’occupazione femminile, che in Italia è estremamente basso, già all’uscita del percorso d’istruzione quando ancora la maternità è lontana.
Tutto ciò non è solo una ingiusta penalizzazione per le donne; ma anche e soprattutto un problema strutturale per la società e l'economia italiane. Infatti colmando il divario di genere, gli effetti benefici ci sarebbero non solo per i singoli, ma per la collettività intera: se si raggiungesse l’obiettivo di Lisbona di impiegare almeno il 60% delle donne, il Pil italiano crescerebbe di 7-9 punti percentuali, afferma Del Boca. Se addirittura si colmasse il divario di genere, ossia lavorassero percentualmente tante donne quanti uomini, l’aumento del Pil italiano sarebbe superiore al 20%, come appare dal grafico Ocse che calcola il reddito potenziale prodotto dalla chiusura del gender gap.
La rivoluzione femminile è invece bloccata, per citare le parole della studiosa, per tre ordini di ragioni: la sproporzione mai sanata nella divisione del lavoro familiare tra maschio e femmina, il perdurare di pregiudizi contro il lavoro femminile e in ultimo, ma fondamentale per la comprensione del fenomeno, il mancato sviluppo delle politiche dette “di conciliazione” (tra lavoro e famiglia), a livello statale o locale, nelle aziende in primis.
Valutando complessivamente il lavoro compiuto tra le mura di casa e al di fuori, emerge (Figura 3) che le donne lavorano in media più del doppio degli uomini (il grafico si riferisce alle ore medie settimanali spalmate sull’intero arco di vita) con un picco in corrispondenza della presenza di figli piccoli, situazione in cui la donna lavora cinque volte di più del suo compagno.
La selva di dati, grafici e tabelle non basta però per capire tutto. Resta un fattore culturale di fondo, un pregiudizio radicato negli uomini e nelle stesse donne: quello per cui illavoro femminile riduce la fecondità e le madri lavoratrici sono delle madri peggiori delle mamme casalinghe. Nonostante le evidenze sul fatto che il reddito femminile sia fondamentale per la sussistenza della famiglia, e sia dimostrata la correlazione secondo cui all’aumentare del tasso di occupazione femminile si riduce l’incidenza della povertà infantile.
Quanto alla “bontà” delle mamme, legata alla maggiore o minore loro presenza in casa, Del Boca cita per tutti i risultati dei test Invalsi, che fanno emergere migliori performance scolastiche laddove i bambini hanno frequentato i nidi o le madri sono comunque riuscite ad assicurare un buon “sostituto materno” scegliendo con attenzione fra le alternative possibili (familiari affidabili, persone e strutture di fiducia).
Inevitabile che, a conclusione della relazioni, l'indice sia puntato sulle politiche. In primis, quelle di conciliazione, ma più in generale sulla qualità e la direzione della spesa pubblica. Siamo al momento all'ultimo posto in classifica per la spesa pubblica destinata ai minori. E congedi parentali, part time volontario, politiche aziendali che pure sarebbero incentivate (art. 9 legge 53 del 2000) sono rimasti sulla carta o ampiamente insufficienti. Per non parlare dei servizi di cura per la prima infanzia (scarsi e quasi totalmente assenti nel Sud), e della mancanza di seri incentivi fiscali che rendano alle donne più conveniente lavorare, anche in presenza di spese per la cura dei figli. Insomma, ce ne sarebbe da fare per colmare lo spread delle donne: da dove si comincia?
Valentina Berengo