CULTURA

Viaggio in Italia. Monastero di Santa Caterina. Il mondo nascosto delle dame velate nel cuore di Palermo

Nel centro storico di Palermo, in piazza Bellini, sorge la Chiesa di Santa Caterina d'Alessandria, eretta nella seconda metà del XVI secolo, dopo il concilio di Trento e secondo la logica della controriforma, secondo la quale l'arte poteva essere uno strumento efficace per promuovere l'evangelizzazione. Alla chiesa è annesso l'omonimo monastero domenicano, che a partire dalla sua fondazione, nel 1311, è stato per secoli la casa delle monache di clausura provenienti dalle famiglie più ricche della città.
È solo da pochi anni che è possibile visitarne gli interni: fino al 2014, infatti, era ancora abitato dalle suore. Nel 2017, poi, la curia arcivescovile di Palermo ha deciso di aprire al pubblico le porte di questo mondo segreto, rimasto nascosto per secoli.

Varcato l'ingresso della chiesa, vale la pena restare con il naso all'insù per qualche minuto e lasciar correre lo sguardo lungo le pareti della navata centrale e la volta affrescata di questo magnifico gioiello barocco anche solo per cercare, inutilmente, un centimetro di spazio libero. Ogni angolo, infatti, è stato accuratamente decorato fin nei minimi dettagli secondo la concezione dell'horror vacui, tipica dell'architettura barocca, con la tecnica dei marmi mischi e tramischi.

È in questo luogo di splendore che centinaia di ragazze, nel corso dei secoli, hanno salutato per l'ultima volta la loro famiglia, prima di attraversare una porta quasi nascosta, sulla sinistra dell'altare, dalla quale non sarebbero uscite mai più, neanche dopo la loro morte.

Quello di Santa Caterina era il monastero femminile più importante della città e probabilmente anche dell'intera Sicilia, ed era molto esclusivo: l'ingresso era riservato esclusivamente alle ragazze provenienti dalle famiglie più altolocate.

Almeno fino all'Ottocento, la vita monastica era l'unico destino possibile per le seconde o le terzogenite delle famiglie nobili. Se il primo figlio maschio ereditava l'intera fortuna, secondo la regola del maggiorascato, gli altri fratelli non avevano altra scelta che intraprendere la carriera militare oppure quella religiosa. Qualcosa di simile valeva per le figlie femmine. Solitamente solo una di loro veniva data in sposa a un ricco pretendente, insieme a una dote cospicua. Le altre, raggiunti i 21 anni d'età, dovevano dire addio alla loro vita civile e iniziare quella monastica. Per la famiglia di origine si trattava della soluzione più conveniente, dal punto di vista economico, per assicurare loro una vita sicura, agiata e rispettabile.

Veniva perciò organizzata una cerimonia, alla quale partecipavano tutti i parenti e gli amici di famiglia, per accompagnare la giovane fanciulla incontro al suo destino. Era lì, nella navata centrale della chiesa di Santa Caterina, che lei si stendeva sul pavimento e veniva ricoperta da un drappo nero. Dopodiché sarebbe rinata come monaca di clausura e servitrice di Dio, avrebbe attraversato la porta dietro l'altare e, da quel momento in poi, i suoi contatti con il mondo esterno sarebbero avvenuti solo attraverso una grata.

Da pochi anni è possibile anche al pubblico attraversare quella porta per scoprire i luoghi dove abitavano le monache e provare a immaginarle nella loro quotidianità.

La vita nel monastero era come quella di un habitat chiuso quasi completamente autosufficiente. Le suore, nonostante avessero fatto voto di silenzio, avevano un modo tutto loro di comunicare. Il monastero, infatti, è pieno di corde a cui sono legate delle campane, che solo alcune monache potevano suonare per trasmettere determinati ordini o comunicare dei messaggi a tutte le altre.
Le campane scandivano i ritmi della vita in convento. Le suore avevano imparato a conoscere e interpretare il significato dei loro diversi suoni e a sapere perciò dove andare o cosa fare in ogni momento senza bisogno di parlarsi.

Disponevano inoltre di tutto ciò di cui avevano bisogno per vivere una vita modesta ma piuttosto agiata. La loro casa, grazie alle donazioni delle famiglie che finanziavano il monastero, conteneva una ricchezza immensa e un arredamento in linea con quello delle dimore da cui provenivano. Erano pur sempre delle donne provenienti da famiglie aristocratiche, abituate a un certo tenore di vita.

Il centro di questo mondo nascosto era il chiostro, un giardino meraviglioso dove si trovano alberi e piante tipici dell'isola, sul quale affacciano tutte le celle private delle monache e attraversando il quale era possibile accedere a tutti gli spazi del monastero, come la mensa, la lavanderia, la sala del coro.

La loro era una vita di casto splendore: abitavano nel silenzio e nella semplicità, ma pur sempre in un'oasi di bellezza, circondate da arredi preziosi e vere e proprie opere d'arte.
Le stanze del monastero, infatti, ospitano una vasta collezione di cero-plastiche del Settecento e Ottocento che fanno riferimento alla vita di san Domenico e anche delle stupende bambole che le monache, entrate in convento da giovanissime, avevano portato con sé come ricordo della loro vecchia vita.

Una delle viste più spettacolari di Palermo, da un lato su piazza Bellini e dall'altro su piazza Pretoria e sulla “fontana della vergogna”, era riservata ai loro occhi. Sopra i tetti della chiesa, ma sempre dietro le grate, potevano guardare dall'alto la vita della città continuare a scorrere sotto di loro e talvolta scorgere i loro cari a passeggio per il centro.

Durante la messa , la monache si trovavano, in un certo senso, allo stesso tempo dentro e fuori dalla chiesa. Il loro posto durante le funzioni religiose, infatti, era all'interno dei letterini: dei corridoi che circondavano dall'alto il perimetro della chiesa, separato con delle grate dall'ambiente in cui si trovavano l'altare e i fedeli. In questo modo, potevano assistere alla funzione e osservare silenziosamente i fedeli seduti sulle panche.
Seppur invisibili agli sguardi dei cittadini, anche le monache svolgevano il loro servizio per la comunità. Durante la messa, infatti, aiutavano passando i paramenti e gli oggetti sacri necessari attraverso uno sportello rotante quasi nascosto, posto a lato dell'altare. Questo meccanismo girevole era costruito in modo tale da permettere ai fedeli di intuire la presenza della monaca dall'altra parte del muro, ma senza vederla.

Un altro servizio che offrivano alla comunità era ovviamente la preghiera, offerta anche attraverso il canto. Dalla sala del coro, le suore condividevano la loro preghiera con chi si trovava all'esterno del monastero e ne ascoltava il canto senza vederle.

Infine, le monache di clausura sono state per secoli le uniche conservatrici delle tradizioni dolciarie più antiche della Sicilia. Solo poche elette tra di loro conoscevano gli ingredienti e i corretti procedimenti per preparare i dolci tipici della tradizione siciliana, alcuni dei quali non era possibile acquistare altrove. Non solo cannoli e cassate, ma anche il trionfo di gola, un coloratissimo dolce dall'aspetto barocco, spettacolare sia per la vista che per il palato, narrato tra l'altro da Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo, e la frutta martorana, dolcetti di farina di mandorle e miele a forma di frutta, che si dice le monache appendessero agli alberi spogli del chiostro, per decorarli.

Tappa obbligata per completare la visita al monastero, infatti, è proprio la dolceria, dove è possibile acquistare le prelibatezze che vengono ancora preparate secondo le antiche ricette che le monache hanno tramandato per generazioni e che sono state trascritte dalle ultime tra loro ad aver lasciato il convento.

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