CULTURA

Nievo, lo scrittore dalle undici anime

Per chi conosce e frequenta il capolavoro di Ippolito Nievo, il guadagno in termini di grande letteratura e di moralità è sempre certo. Così come è certo, per l’appassionato delle Confessioni di un italiano, il rischio che tutta la produzione nieviana venga sacrificata al fuoco del capolavoro (e con ragioni inoppugnabili, in realtà). E tuttavia Nievo non è scrittore unius libri e converrebbe dare un’occhiata a tutta la sua sterminata produzione scritta, sterminata se si considera che lo scrittore morì che non aveva neanche trent’anni:  narrativa, teatro, poesia, recensioni, articoli di costume, riflessione politica e, infine, un epistolario che è un concentrato di ironia (le cosiddette “lettere garibaldine” in cui Nievo racconta della spedizione dei Mille).

Insomma, Nievo non ha paura di scialare, per così dire, e del resto lui stesso scriverà, nel febbraio del 1858: “Delle anime, amici, io ne ho cinque, ne ho sette, io ne ho undici”.

L’interesse per uno scrittore come Nievo si deve non solo a quello che ha scritto ma a quello che avrebbe potuto scrivere, basti pensare all’affascinante progetto di scrivere una “vita degli uomini oscuri”. È certo che alla base delle pagine di Nievo troviamo sicuramente una grande istanza comunicativa.

Sono del parere che anche se Nievo non avesse scritto le Confessioni, che non è in nessun modo la sua biografia romanzata, avrebbe potuto però scrivere la sua vita, la sua autobiografia: senz’altro sarebbe diventata un momento dell’ideale autobiografia della nazione. Vale la pena, per tanto, spendere un po’ di tempo su questi articoli di politica e attualità del Nievo curati, con notevole acribia esegetica ed esplicativa, da Attilio Motta, italianista dell’università di Padova.

Il libro raccoglie una parte dell’attività giornalistica di Nievo, circa 70 articoli, apparsi su svariati giornali e settimanali, come “Il Caffè”, “Il Panorama universale”, “Il Corriere delle Dame”, “L’uomo di Pietra” e “Il Pungolo”. Su quest’ultimo, un settimanale milanese, verrà pubblicato nel 1860 uno dei testi più belli di Nievo quale Il giornale della spedizione di Sicilia, cronaca asciutta e priva di retorica dell’esperienza garibaldina.

Il curatore inserisce nel volume anche i primi scritti del giovane Nievo, siamo nel 1852, e cioè i frammenti di una lettera scritta all’austriacante rivista bresciana “La Sferza”, nella quale Nievo, studente di legge a Padova, protesta contro un articolo antisemita del direttore della stessa rivista; e due lettere in cui Nievo difende gli studenti universitari padovani dall’accusa di immoralismo: Nievo interviene così in loro: “io sono convinto, che in questa belletta tanto dispregiata ferva la parte viva e pensante della nazione […] e molte menti trovai in essa ricche di quei maschi affetti, quelle grandi idee che gioveranno all’umanità”.

Già in queste lettere Nievo sembra rivelare la cifra di quello che sarà il suo giornalismo, e cioè elevare sempre la contingenza al livello della riflessione o, come scriverà, trasformare “le ciarle in idee”. Per esempio la discussione sulla vita degli studenti a Padova diventa il pretesto per un ragionamento non banale sul significato delle generazioni e delle età dell’uomo ma anche, direi, sul senso dell’essere studente, come categoria esistenziale oltreché sociale.

Il giornalismo di Nievo sarà sempre il momento militante della sua attività di scrittore, la sua immersione nel presente e nella contemporaneità (e ricordiamo che le Confessioni volevano essere un “romanzo storico contemporaneo”), persino nell’articolo più svagato si ha l’impressione che Nievo conduca sempre una battaglie delle idee.

Infatti il Nievo giornalista, anche negli articoli più disimpegnati, satirici o divaganti, sente sempre il bisogno di istruire politicamente. Già convinto assertore dell’unità italiana e futuro volontario garibaldino, egli cercherà di seminare, come nota Motta, le sue idee politiche eludendo l’attenta censura asburgica. Del 1855 è questa obliqua dichiarazione di italianità: “In verità io non sono a rigor di termine, né di Mantova, né di Padova, né del Friuli, ché anzi per questo mio vagabondaggio sono venuto formandomi in capo l’idea di un patria alla mia maniera, sul proposito della quale non giova confessarsi pubblicamente”.

Un ruolo importante è assegnato a due scritti che mostrano lo spessore della riflessione politica di Nievo; in particolare il saggio incompiuto Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale, composto nel novembre del 1859 e pubblicato per la prima volta nel 1929, e qui restituito filologicamente. In esso la questione affrontata da Nievo è decisiva: come risolvere la secolare estraneità dei contadini a idee come Italia e Nazione? Come risolvere il conflitto, che lo scrittore riconduce a quello tra città e campagna, tra intellighènzia liberale e il “popolo rurale”? 

La rivoluzione non può essere solo politica ma nazionale, cioè deve coinvolgere, far partecipare “venti milioni di contadini poveri e ignoranti” al corpo collettivo della Nazione: le “nazioni sono composizioni d’uomini”. Motta mette in luce le proposte innovative (come l’ipotesi del suffragio universale) ma anche i limiti (p.e. non c’è la proposta di una riforma agraria) di quel proprietario terriero progressista che fu Nievo.

E tuttavia, al di là dei limiti della riflessione politica nieviana, lo stesso bisogno di affrontare un tema simile, cioè l’integrazione dei contadini nella nazione mentre, ricordiamolo, il processo risorgimentale è in pieno svolgimento, mette Nievo allo stesso livello di chi sulla stessa questione cercava soluzioni in Europa e, per restare fermi agli scrittori, basterebbe citare solo il nome di Tolstoj, pensando a quel formidabile racconto allegorico, di trent’anni successivo, che è Padrone e bracciante. Ma si pensi anche al quel vasto movimento politico che fu il Populismo russo: si tratta – facendo le dovute differenze per la diversità dei contesti – di sottolineare come Nievo si arrovellasse su idee che circolavano in Europa.

La maggiore acquisizione, anche attraverso un’analisi stilistica e linguistica del pamphlet, è il rilievo dato allo stile dilemmatico di Nievo e cioè al fatto che l’autore metta a fuoco e articoli più soluzioni alternative al problema considerato, quasi un procedere sperimentale, si potrebbe dire.

Oscillando tra audacia e tatticismo nelle sue riflessioni politiche, nessuno ci impedisce di pensare che, nella sua evoluzione ideologica, lo spirito inquieto e prospettico del Nievo a un certo punto non potesse diventare quello che diventò Baudelaire per la sua classe di appartenenza, e cioè “l’agente segreto, un agente della segreta insoddisfazione della propria classe nei confronti del dominio da essa esercitato” (Walter Benjamin). 

Sebastiano Leotta

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