SOCIETÀ

Non c’è rifugio alla catastrofe della politica

Ha fatto scalpore, come anche il Bo ha riportato, la sentenza della Corte Costituzionale sul cosiddetto blocco delle pensioni; pochi giorni prima il Tar del Lazio aveva annullato il piano straordinario per contrastare la diffusione della Xylella, il batterio che sta attaccando gli ulivi del Salento. Sono soltanto due tra i tanti esempi del conflitto tra i giudici e il potere discrezionale della politica, non solo a livello nazionale ma anche europeo. Un conflitto entro certi limiti normale e anzi auspicabile in uno stato di diritto, ma che negli ultimi tempi ha visto pendere la bilancia sempre più dalla parte dell’autorità giudiziaria, secondo Giovanni Belardelli. 

Questo ovviamente non accade solo in Italia: quello della Judicialization of Politics – scrive l’autore in La catastrofe della politica nell’Italia contemporanea (Rubbettino 2014) – è un fenomeno mondiale, che è tra l’altro all’origine di molte scelte decisive per le società attuali (si pensi solo alla sentenza Roe vs. Wade della Corte Suprema statunitense sull’aborto nel 1973, oppure da noi alla demolizione da parte della Consulta della legge elettorale del 2005, o della legge 40 sulla fecondazione assistita). Che in Italia riceve però una forza particolare dalla costante crisi di credibilità in cui versano le classi dirigenti.

A restringere inoltre il raggio d’azione della politica, secondo lo studioso, non c’è solo il diritto ma anche l’etica, sempre più vista come unico fondamento possibile delle scelte pubbliche. Una concezione che vede l’agone politico come una lotta tra onesti e disonesti, secondo una contrapposizione che ha preso il posto di quella classica tra progressisti e conservatori. L’onestà e il disinteresse, come ha messo in evidenza anche la filosofa Francesca Rigotti, cessano così di essere un presupposto e diventano l’essenza stessa dell’azione politica, a prescindere dalla preparazione e dalla competenza. Un discorso che però vale soprattutto per gli avversari politici: la condanna della “casta” ha infatti spesso un sapore autoassolutorio che impedisce di riflettere sull’illegalità diffusa nel Paese a tutti i livelli, compresi quelli medi e bassi.

Certo, si dirà, questo è normale in un paese che figura stabilmente ai primi posti in Occidente per il tasso di corruzione percepita. Non sempre però gli esiti sono quelli sperati: “Negli ultimi anni etica e diritto hanno sempre più sottratto spazi alla politica – commenta Belardelli –, senza peraltro che il rispetto delle leggi e la moralità pubblica ne abbiano tratto particolare giovamento”. Se insomma si voleva supplire al fallimento delle autorità sociali, in realtà si è finito per indebolire i centri di decisione e renderli sempre più grigi e impersonali. Oggi non solo il premier o il sindaco, ma anche il medico o l’insegnante hanno difficoltà a “emanare norme e a farle rispettare” (come scrive il sociologo Alessandro Pizzorno ne Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù, Laterza 1998), senza che la faccenda finisca prima o poi davanti a un giudice. Che risolverà sì la questione in modo definitivo, ma non per questo necessariamente più competente o meno arbitrario, come dimostrano i casi Stamina e Di Bella (due cure truffaldine imposte per qualche tempo al Servizio sanitario da alcuni giudici locali). 

Il rischio è quello di una società non più giusta e onesta bensì bloccata, incapace di scegliere – l’essenza dell’azione politica. E per ciò stesso tenuta ostaggio dalle burocrazie e dalle lobbies. Colpa soprattutto di una classe politica sempre più distante dalle esigenze del paese, con una sinistra che in particolare sembra ripiegata su concezioni elitarie e conservatrici, che le impediscono di ascoltare il paese, e una destra che invece il paese sembra incapace di guidarlo, concentrata com’è sulla “pancia”. È questo, secondo Belardelli, il disastro della politica dell’Italia degli anni 2000, che fino a poco fa trovava la sua plastica rappresentazione nel continuo scontro tra berlusconiani e antiberlusconiani. 

Il saggio di Belardelli contiene molte osservazioni interessanti, omettendo forse di concentrarsi su alcune delle ragioni di lungo periodo di questa situazione, elencate da Pizzorno già nel 1998: prima di tutto, “se i bilanci pubblici sono di più in più rigidi, e le decisioni di politica economica sono dettate dalla logica del sistema economico internazionale, la discrezionalità della politica programmante si avvicina allo zero”. In altre parole, se tutto viene deciso a Bruxelles (si guardi alla vicende del Fiscal Compact e della legge Fornero) è naturale che l’opposizione a queste scelte trovi più spazio nelle istituzioni di tutela dei diritti garantiti dalla Costituzione che nelle aule del Parlamento. Questo per una ragione anch’essa ben identificata da Pizzorno: “Il Parlamento perde, o mantiene non più che in via formale, gran parte delle sue funzioni originarie, e soprattutto la cosiddetta funzione di ’indirizzo politico‘, interamente nelle mani del governo”. “Quando il potere del Parlamento si riduce”, continua Pizzorno, “si riduce di altrettanto il potere dell’opposizione, che si vede sottratti il luogo e le risorse dove esercitare il suo ruolo di controllo”.

Per concludere: è la crisi della politica che amplia il ruolo della magistratura ma a questa crisi non si può certo reagire mettendo la museruola (o pensando di rendere “più amichevoli”) le istituzioni di garanzia dei diritti fondamentali come la Corte Costituzionale.

FT

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