SOCIETÀ

Non nel mio giardino, grazie

Non esiste solo il Mediterraneo con le migliaia di profughi che bussano alle porte di un’Europa divisa tra (teorici) obblighi umanitari e traballanti volontà di accoglienza. Il mondo è in movimento e ancora non riusciamo a capire come gestirlo. O forse lo abbiamo già capito anche troppo bene.

È questa la fotografia che emerge dai fatti di cronaca ma anche da un grappolo di rapporti e proiezioni usciti nelle ultime settimane. Secondo il Global Trends Report: World at War dell’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), uscito a metà giugno, nel 2014 il numero di persone fuggite dal proprio paese ha raggiunto la cifra record di 59,5 milioni, rispetto ai 51,2 dell’anno precedente e ai 37,5 di un decennio prima. Fuggono da economie in crisi e da un mondo instabile, costellato di guerre. L’Unhcr ne enumera 15 in 5 anni: dalla Costa d’Avorio alla Siria, dall’Ucraina al Pakistan. Crisi raramente risolte, tanto che nel 2014 solo 126.800 rifugiati sono tornati a casa, il numero più basso in 31 anni. Globalmente – si legge – una persona su 122 è un migrante o cerca asilo; se fosse uno stato, questo sarebbe il 24° paese più popoloso al mondo. 

Fuggono da un clima che cambia erodendo terreni coltivabili, portando carestie, minando economie. L’ultimo rapporto Ipcc prevede, tra le strategie di adattamento a livello sociale, evacuazioni pianificate e migrazioni. L’Onu da decenni si attende 200 milioni di soli migranti ambientali entro il 2050. Nei tribunali neozelandesi si dibattono i casi di potenziali rifugiati climatici fuggiti dalle isole Tuvalu, candidate alla sommersione con l’innalzamento degli oceani. La Nasa ci informa, in queste settimane, che un terzo dei bacini d’acqua di superficie è in grande sofferenza, e ci fornisce dettagliate e non rassicuranti proiezioni sui temperature e precipitazioni fino al 2100. Da anni gli studiosi prevedono migrazioni e conflitti violenti a causa dei cambiamenti climatici. Insomma, le notizie sono pessime: le migrazioni aumenteranno.

A fronte di tutto ciò, si reagisce con la strategia del Nimby. “Not in my back yard” è il principio che guida la scarsa collaborazione tra stati europei così come, ad esempio, le decisioni australiane. È di pochi giorni fa la notizia che l’Australia avrebbe pagato gli scafisti che trasportavano profughi indonesiani perché li riportassero indietro. La notizia è stata prima smentita, poi glissata dal governo, e commentata da un noto avvocato, editorialista per l’emittente Abc, con un provocatorio “Sarebbe un crimine?”. La notizia si innesta su una severa legislazione che prevede che i profughi – prevalentemente del Sud Est asiatico – siano fermati e trattenuti fuori dal territorio e dallo stato australiano, sulle isole di Nauru e Papua Nuova Guinea, con cui nel 2012 l’Australia ha raggiunto un accordo. Un memorandum di intesa è stato siglato inoltre nel settembre 2014 con la Cambogia, che ha accettato la “rilocazione” dei profughi da Nauru. Accordi che naturalmente richiamano l’attenzione dell’Unhcr, che sta cercando di arrivare a un trattamento non discriminatorio dei profughi, indipendentemente dal loro mezzo di arrivo (sono sempre i barconi a spaventare di più), e governando quindi le forme più estreme dettate dal principio “Stop the boats”. Per inciso, le cifre dei boat people fornite dal Parlamento australiano farebbero sicuramente sorridere gli europei, che dal canto loro si domandano se il modello australiano possa essere importabile.

Un pullman di richiedenti asilo arriva alla caserma Prandina di Padova, "hub" provvisorio per la gestione dell'emergenza. Foto: Massimo Pistore

Una notevole rigidità caratterizza anche la politica neozelandese, mentre sono molti i paesi del Sud Est asiatico che sperimentano iniziative di respingimento in mare. Alcuni (come ad esempio la Malesia) non aderiscono alle convenzioni sui rifugiati trattando quindi tutti come immigrati illegali, o non possiedono adeguata legislazione – men che meno le strutture – per gestire l’identificazione e l’accoglienza di questi ospiti indesiderati. La detenzione degli immigrati è prassi comune, che si tratti di adulti o di bambini, così come le iniziative di rimpatrio.

Mentre in Europa è fresca la notizia che in Ungheria è stata approvata la costruzione di una barriera anti-migranti  lungo il confine con la Serbia incassando anche il sostegno della Commissione europea, dall’altra parte del mondo, in Giappone, si discute – per una volta – sull’opportunità di allentare le norme sull’immigrazione. Hidenori Sakanaka, ex capo del dipartimento dell’immigrazione, proponeva nella scorsa primavera di considerare la necessità di accogliere 10 milioni di immigrati nei prossimi 50 anni, sovvertendo completamente la tradizione e la mentalità nipponica. Accogliere per sopravvivere, in un paese che conosce una gravissima crisi demografica e rischia nei prossimi anni di veder crollare il loro status di terza economia mondiale se non importerà velocemente forza lavoro. Le proposte di Sakanaka trovano il loro contraltare nelle posizioni di Ayako Sono, scrittrice best-seller di orientamento conservatore, che in un controverso articolo qualche mese fa suggeriva una netta politica di segregazione per questi ospiti utili ma fastidiosi. D’altra parte, il paese decenni fa accolse decine di migliaia di lavoratori di ascendenza nipponica per rimpatriarli senza tanti riguardi quando non servivano più, senza peraltro garantire un’integrazione ai loro discendenti, e nasconde ora molti immigrati di fatto (per lo più badanti o infermieri) sotto la veste formale dei tirocini a tempo determinato. I nuovi immigrati – attenzione – possono essere selezionati con un meccanismo a punti che premierà al meglio i professionisti altamente qualificati

I diseredati del pianeta, per cortesia, restino a casa loro. 

Cristina Gottardi

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012