SOCIETÀ
Norme e leggi: quale ruolo per i giudici?
In un epoca in cui tutto è sempre più “liquido” (copyright l’immarcescibile Zygmunt Bauman), anche i tribunali devono fare i conti con una realtà complessa e imprevedibile, sempre più difficilmente riconducibile agli schemi delle previsioni normative. Un processo in atto da tempo, quello della crisi della legge, che ha portato all’espansione del ruolo dell’interprete – in particolare il giudice – persino in campi come il diritto penale, in cui il primato della legge fino a poco tempo fa sembrava intoccabile.
Anche di questo si è parlato nel recente convegno Ermeneutica e scienza penale, che prende il nome da una corrente di pensiero giuridico (chiamata in Italia dell’Ermeneutica giuridica) che appunto attribuisce un peso determinante all’interpretazione del diritto nel momento della sua applicazione rispetto a quello, pur essenziale, della previsione normativa. Una scuola di cui è esponente di primo piano Giuseppe Zaccaria, docente di teoria generale del diritto presso l’università di Padova e tra gli organizzatori dell’incontro: “Si tratta di un movimento di pensiero che negli ultimi anni si è diffuso a tutti i livelli, ma che per ora fatica ad affermarsi nell’ambito della scienza penalistica e del diritto penale. Quest’ultimo infatti è caratterizzato da principi tipici come quelli della riserva assoluta di legge, della tassatività e della determinatezza delle fattispecie, consacrati nel nostro ordinamento dall’art. 101 della Costituzione, mentre i penalisti si mostrano ancora spesso abbarbicati a miti illuministici oggi poco realistici”.
Una situazione che tuttavia finora non ha impedito, secondo alcuni, che anche in campo penale i giudici siano di fatto investiti di un potere crescente. Gli esempi sono diversi: dalla determinazione della pena, dove il magistrato è da sempre investito di un potere amplissimo, al problema di un’interpretazione sempre più estensiva delle fattispecie. È il caso ad esempio dell’applicazione alle testate online dei reati a mezzo stampa, previste dall’art. 57 del codice penale, o dell’utilizzo dell’art. 674 (‘Getto pericoloso di cose’) per il sanzionare il cosiddetto ‘elettrosmog’.
“Se la scienza penalistica è molto cambiata negli ultimi anni, questo si deve a diversi fattori – ha spiegato durante il convegno Ernesto Lupo, già primo presidente della Corte di Cassazione e poi consigliere del presidente Napolitano –: ad esempio al continuo mutamento della normativa, che ha fatto perdere alla legge buona parte della sua sacralità di un tempo, oppure anche al ruolo della Costituzione repubblicana, che ha demandato ai giudici costituzionali giudici il potere di valutare le leggi”. Determinante inoltre il ruolo delle fonti e delle sentenze delle istituzioni europee, come quelle delle corti del Lussemburgo, che assicura l’uniformità dell’applicazione del diritto dell’Unione Europea, e di Strasburgo, per quanto invece riguarda i diritti umani. Giurisdizioni che erodono in maniera significativa l’ambito del diritto nazionale, compreso quello penale.
Un tendenza che, secondo il filosofo del diritto Massimo Vogliotti, non può più essere negata: l’esigenza è di guardare in faccia la realtà andando al di là del mito illuministico del giudice come ‘bocca della legge’, mero esecutore delle decisioni prese in parlamento. Un modello tanto più in crisi, nella misura in cui oggi lo è anche il modello di democrazia rappresentativa. E allora un’opzione possibile potrebbe essere, secondo Vogliotti, quella di attingere linfa vitale da esperienze come quelle dei paesi anglosassoni, in cui il ruolo del giudice è da tempo valorizzato. “Si potrebbe riconoscere alle sentenze un ruolo di fonte del diritto, come del resto suggeriva già il grande Pietro Nuvolone – ha spiegato Vogliotti durante il suo intervento –; continuare altrimenti a negare il valore dei precedenti rischia di lasciare il nostro sistema sprovvisto di quei contrappesi culturali e legali che invece caratterizzano i paesi appartenenti alla tradizione della Common Law, negando di fatto quei principi che in teoria si vorrebbe difendere”.
Una prospettiva che non ha trovato per nulla d’accordo uno studioso della caratura di Luigi Ferrajoli, già magistrato e allievo di Norberto Bobbio, che nel suo intervento si è schierato nettamente contro la prospettiva di un ‘creazionismo giurisprudenziale’: “L’ultima cosa di cui oggi si sente bisogno è di un ulteriore accrescimento degli spazi discrezionali, già larghissimi, dei giudici. Questo anzi rischierebbe di portare al definitivo collasso di principi fondamentali del diritto penale, come quelli di legalità e di soggezione dei giudici alla legge”. Anche perché la nuova concezione rischia di mettere ancora più in crisi le strutture democratiche delle nostre società: “Il principio di legalità è legato indissolubilmente alla nascita della politica moderna, come esigenza e possibilità di trasformazione democratica della realtà”. Per questo la proposta di Ferrajoli è non solo di riaffermare con forza il primato della legge, ma addirittura di intraprendere una codificazione penale per porre fine al caos: dalla riserva di legge alla ‘riserva di codice’ insomma.
Il rapporto tra legge e interpretazione è insomma un tema che magari per i non specialisti suonerà astratto, ma che invece ha conseguenze dirette anche nella vita di tutti i cittadini. “Una visione maggiormente realistica, che aiuti a comprendere lo spazio insopprimibile della discrezionalità del giudice, non significa sicuramente legittimare ogni tipo di arbitrio – conclude Giuseppe Zaccaria –. Vale per il penale come per qualsiasi altro ambito del diritto: valori come la certezza del diritto e il principio di legalità rimangono fondamentali per l’ordinamento, a patto di non trattarli alla stregua di dogmi, ma di essere pronti ogni volta a ridiscuterli per adattarli alle esigenze di una realtà sempre più multiforme e complessa”.
Daniele Mont D’Arpizio