CULTURA

Patria, il regno dell'assenza

Patria del basco Fernando Aramburu, è il romanzo straniero più potente apparso in Italia nel 2017. Appena chiusa l’ultima pagina torniamo a rileggere le prime pagine e ci accorgiamo che eravamo stati introdotti senza saperlo nel regno dell’assenza. Quella di un piccolo imprenditore, Txato, che non vuole pagare più l’“imposta” rivoluzionaria all’ETA e per questo viene assassinato da un commando dell’organizzazione terroristica di cui forse fa parte il figlio di una famiglia amica. Ambientata dalle parti della città di San Sebastiàn sotto un cielo quasi sempre plumbeo, Aramburu racconta la storia di una comunità divisa dalla sua ossessione di essere un popolo martire e perseguitato e il suo inabissarsi nel terrorismo armato dell’ETA che, con una necessità geometrica, s’impone sulle vite umane (comprese quelle di una parte della società basca) e che non fa differenza tra Spagna franchista e Spagna democratica. Con le armi della letteratura Aramburu racconta la paura, l’omertà, il fanatismo identitario, il sospetto  per chi è poco abertzale (patriota basco), il feticismo linguistico e la diffidenza per chi si esprime in castigliano (anche se ancora oggi l’euskera rimane una lingua parlata solo da 1/3 della popolazione). Un grandioso affresco di trent’anni di terrorismo nei Paesi Baschi attraverso le vittime, i  carnefici e gli spettatori  senza tacere sulla pratica della tortura nei confronti dei terroristi da parte delle autorità spagnole.

L’ETA, cioè Euskadi Ta Askatasuna (Paese basco e libertà), una singolare sintesi di nazionalismo etnico e marxismo rivoluzionario contro ogni tipo di Spagna, che nel corso di  poco più di 40 anni di storia ha provocato 829 vittime: dal clamoroso attentato del 1973 all’ammiraglio Carrero Blanco, il vice di Franco, al sequestro - seguito dalla brutale esecuzione - del giovane consigliere del Partito Popolare spagnolo Miguel Àngel Blanco nel 1997, che ebbe come conseguenza una spettacolare manifestazione dei baschi contro il terrorismo dell’ETA. Lo storico conflitto che oppone i baschi al centralismo di Madrid ha avuto durante la dittatura franchista il momento di  maggiore asprezza, con Franco si represse ogni istanza indipendentista e si avviò una spagnolizzazione forzata. Con il ritorno della democrazia i baschi hanno sempre ottenuto notevoli concessioni autonomiste, nel 1998 con il patto di Estella (una città della Navarra) tutte le forze politiche, sociali e sindacali hanno convenuto che il negoziato e la via democratica sono il modo per uscire dal secolare conflitto con Madrid. Certo le nazioni non sono proiezioni di Dio, come scrisse  una volta Leopold Von Ranke, ma sono fenomeni storici soggetti a mutamento, come si sono formate possono anche dissolversi. Adesso nel discorso della politica basca si parla di autonomia come via verso l’indipendenza, pasito a pasito, un passo dalla volta.

 Anche l’ETA  nel 2011 ha deciso per il disarmo e per la fine della lotta armata anche se nel giudizio di Aramburu si tratta di una decisione poco credibile, pur resa obbligatoria dal venir meno dell’uso del terrorismo (ma anche dal fatto che a volere l’indipendenza contro ‘l’oppressore’ spagnolo è solo un terzo dei baschi). Il disarmo secondo lo scrittore è troppo sbrigativo per essere accettato né si possono dimenticare le centinaia di morti: nelle parole di  Bittori, la moglie della vittima, non si tratta di dimenticare, ma di chiedere innanzitutto giustizia: «lo vedi, le vittime danno fastidio. Ci vogliono spingere con la scopa sotto il tappeto. Non dobbiamo farci vedere e, se scompariamo dalla vita pubblica, e loro riescono a tirare fuori dal carcere i detenuti, be’, questa è la pace e tutti contenti, qui non è successo niente».

Figure memorabili attraversano Patria, innanzitutto le donne. Bittori, costretta a fuggire dal suo paese inseguita dall’ostilità degli indipendentisti ma anche e soprattutto dalla codardia e paura dei tanti; Miren la madre del giovane terrorista Joxe Mari che abbraccia con inaudita intensità la causa del figlio (straordinarie le pagine sulla radicalizzazione del giovane e sul suo passaggio alla clandestinità); il marito di Miren, Joxian, che tace per paura, esempio supremo di autocensura; e poi i bar con le foto degli eroi dell’Eta caduti o in carcere, sulle pareti le foto dei terroristi morti o in prigione, le ikurriñas (le bandiere basche) sempre a portata di mano, ma anche il ruolo inquietante della chiesa cattolica che fiancheggia l’ETA nella figura di don Serapio, con la sua pedagogia nazionalista: «Forse che Dio ha dato segno di  non desiderare i baschi alla sua presenza? Dio vuole accanto a sé i buoni  baschi come vuole anche, occhio, i suoi buoni spagnoli e i suoi francesi e polacchi. E a noi baschi ci ha fatti come siamo, tenaci nei nostri propositi, lavoratori e saldi nell’idea di una nazione sovrana. Perciò mi azzarderei ad affermare che su di noi ricade la missione cristiana di difendere la nostra identità, e pertanto la nostra cultura e, sopra ogni cosa, la nostra lingua. Se quest’ultima scompare, dimmi, Miren, dimmelo con franchezza, chi pregherà Dio in euskera, chi canterà le sue lodi in euskera?[…] La loro democrazia, la loro, quella che ci opprime come popolo. Perciò ti dico, con il cuore in mano, la nostra lotta non è soltanto giusta. È necessaria, oggi più che mai». Fanno da sfondo, in questo romanzo di poco più di 600 pagine, scritto in spagnolo e che in Spagna ha venduto 500mila copie, le scritte sui muri che funzionano come una sorta di pubblica intimidazione per chi non è per l’indipendenza: Herriak ez du barkatuko (il popolo non perdonerà), ETA herria zurekin ( Eta il popolo è con te).

Solo gli scrittori baschi della generazione degli anni Sessanta e Settanta hanno guardato senza parzialità dentro alle lacerazioni più profonde della società, valgano per tutti le parole di Jokin Muñoz  (nato nel 1963, mentre Aramburu è del 1959) che ha scritto sulla paralisi della maggioranza democratica della società basca: «Era normale gridare viva all’ETA e chiedere ancora più morti; era normale inviare, come minaccia, due pallottole ai politici che non ci assecondavano; tutto questo era metabolizzato. Era quotidiano. E su tutta questa follia nessuno considerava il dolore che la violenza causava, perché i protagonisti di questa stessa violenza – erano sempre gli altri».

Sebastiano Leotta

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