UNIVERSITÀ E SCUOLA

Piccoli imprenditori crescono

Cinque pagine di circolare. Quindici pagine di linee guida, comprensive di due pagine di glossario. A presidi e insegnanti cui è arrivata la documentazione sulla “certificazione delle competenze”, le nuove pagelle supplementari che il Miur ha introdotto da quest’anno, devono essere tremate le gambe. Per capire infatti quali compiti ulteriori attendono i docenti chiamati a una valutazione extra degli scolari alla fine di quinta elementare e terza media, prima di tutto è necessario tradurre il linguaggio del ministero. Che inanella passaggi come questi: “Si intende, infatti, evitare il rischio che l’operazione di certificazione sia interpretata come semplice adempimento amministrativo, trasformandola invece in una occasione per rendere coerenti i momenti della progettazione, dell’azione didattica, della valutazione degli apprendimenti con il quadro pedagogico delle Indicazioni, ispirato non casualmente al tema delle competenze, che richiamano l’idea di un apprendimento significato di conoscenze, abilità, atteggiamenti capaci di contribuire ad una piena formazione della persona dell’allievo”. Stop.

Astraendoci dalle vertigini sintattiche, è possibile capire di cosa si tratta? Tutto parte nel 1999, quando il dpr 275 impone che il ministero adotti modelli per certificare “le conoscenze, le competenze, le capacità acquisite e i crediti formativi riconoscibili”. Di qui si innesca una lunga catena normativa che si aggancia a quella europea (con le Raccomandazioni del 2006 e del 2008 su competenze e qualifiche) e culmina nelle indicazioni per i curriculum del primo ciclo d’istruzione (dm 254/2012). Ma con quali finalità? Spiegano le linee guida che la nuova attestazione deve fornire alle famiglie elementi sulla capacità dell’allievo di “utilizzare i saperi acquisiti per affrontare compiti e problemi, complessi e nuovi, reali o simulati”. A dover essere giudicato sarebbe il modo in cui lo scolaro stabilisce “relazioni” tra le conoscenze ottenute e il mondo “al fine di elaborare soluzioni ai problemi che la vita reale pone quotidianamente”.

Per realizzare il non facile compito, il Miur ha predisposto due “schede di certificazione”, che gli insegnanti dovranno redigere e il dirigente firmare, destinate agli alunni al termine dei cinque anni della scuola primaria e dei tre della secondaria di primo grado. Le due pagelle si compongono di 13 voci relative ad altrettante competenze, sulle quali i docenti attribuiranno all’alunno un voto espresso in lettere: dalla “A” (livello “avanzato”) alla D (livello “iniziale”). E qui la prima sorpresa: i quattro giudizi sono tutti positivi, perché il certificato sarà consegnato solo a chi viene ammesso all’anno successivo. Ma ciò che più stuzzica sono i “profili delle competenze” su cui l’allievo sarà valutato. Il bimbo di quinta elementare verrà giudicato, ad esempio, sulla “consapevolezza delle proprie potenzialità e dei propri limiti”, o su quanto “collabora con gli altri per la costruzione del bene comune”; mentre il ragazzo di terza media affronterà un esame più severo su quanto sappia “verificare l’attendibilità delle analisi quantitative e statistiche proposte da altri” o su come “osserva ed interpreta ambienti, fatti, fenomeni e produzioni artistiche”. Il tutto moltiplicato per tredici voti a testa, da attribuire in base a voci quali “spirito di iniziativa e imprenditorialità” e “consapevolezza ed espressione culturale”.

Sorvolando sull’onere ingrato di valutare l’imprenditorialità di un decenne in una scuola di frontiera dell’hinterland casertano, sorge almeno un paio di dubbi: come faranno i docenti a stabilire chi deve giudicare che cosa, riguardo a competenze così slegate dalle rispettive materie di insegnamento? Ma soprattutto: come si può definire certificazione nazionale un’attestazione che ciascun istituto calibrerà in modo assolutamente individuale, non essendo basata su prove uniformi in tutto il Paese? Apprendiamo che la certificazione delle competenze quest’anno per le scuole sarà facoltativa, ma dal 2015/2016 dovrà essere adottata in tutta Italia; l’obiettivo è di arrivare a quattro certificati, introducendo anche quelli al termine del secondo e del quinto anno delle superiori. Al termine di questo processo, i docenti si vedranno così trasformati in agenti certificatori: all’insegnamento verrà dedicato, si presume, il tempo che avanzerà dagli scambi di opinioni sul grado di imprenditorialità e di abnegazione dei propri allievi. È forse il caso che qualcuno appenda nello studio del ministro la pagina 69 del suo piano “La buona scuola”: “I presidi sono oggi troppo spesso impegnati a decodificare le circolari ministeriali anziché occuparsi di coordinare la progettazione educativa”. Appunto.

Martino Periti

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