SCIENZA E RICERCA

Il piccolo contadino può sfamare il mondo

Il modello della Green revolution, che avrebbe dovuto nutrire il pianeta con tecnologia e OGM, non funziona. Questa è l’opinione di Miguel Altieri, docente a Berkeley (università della California) e considerato uno degli esponenti più autorevoli dell’agroecologia: la branca di studi che cerca di unire le esigenze della produzione agricola con una maggiore tutela dell’ambiente. “Oggi sarebbe già possibile sfamare tutti gli abitanti della terra, ma preferiamo sprecare il cibo – continua lo studioso  – Non si tratta quindi solo di tecniche, il problema è nel modello: il capitalismo può davvero risolvere il problema della fame nel mondo?”.

Altieri ha tenuto una conferenza nel campus di Agripolis, dove è venuto appositamente dall’Expo di Milano; cileno con ascendenze napoletane (come gli piace ricordare), vanta oltre 230 pubblicazioni oltre a una mole impressionante di collaborazioni istituzionali, che comprendono l’Onu e diverse istituzioni scientifiche e governative nord e sudamericane. “Oggi dal 50 al 75% del cibo, a seconda delle stime, è prodotto da contadini in piccoli appezzamenti. Che però hanno a disposizione meno del 30% del terreno arabile mondiale, il 30% dell’acqua e il 20% dei combustibili fossili, mentre il resto va alle grandi monocolture industriali. Cosa succederebbe se dessimo ai contadini il 50% dei terreni agricoli?”. 

Le piccole proprietà, se ben coltivate, hanno secondo Altieri una resa per metro quadro superiore a quella delle grandi piantagioni: il segreto sta nell’utilizzo delle tecniche tradizionali, come la rotazione delle coltivazioni e lo sfruttamento delle sinergie: “Una risaia tradizionale in Cina non produce solo cereali, ma anche pesce. I pesci poi si nutrono dei parassiti, permettendo di non usare pesticidi. In questo modello l’uomo plasma un vero e proprio nuovo sistema ecologico, in cui non c’è solo una specie edibile. Così basta un solo acro nell’area mediterranea (poco più di 4.046 metri quadri, meno della metà di un ettaro, ndr) a nutrire una famiglia di cinque persone”. I principi dell’agroecologia comunque, basati su un uso intelligente delle risorse, possono essere applicati secondo Altieri anche nei grandi appezzamenti, come ad esempio avviene attualmente in una fattoria in Brasile di oltre 16.000 ettari.

La sfida dell’agroecologia è proprio quella di riuscire a combinare le scienze – dall’entomologia all’ecologia, passando per sociologia e antropologia – con le conoscenze tradizionali, in quello che lo studioso americano definisce un ‘dialogo di sapienze’: “Eppure – continua Altieri – oggi il 90% delle facoltà di agraria non insegna l’agroecologia, e la stessa università in cui insegno da quasi 35 anni dedica pochissimi fondi alle nostre ricerche. Questo perché ci sono ancora molti pregiudizi, anche politici”. Molti paesi però oggi tornano a incentivare la piccola proprietà agraria: “Si rendono conto che in questo modo aumenta la produttività mentre diminuiscono l’inquinamento, l’erosione del terreno e persino la criminalità. Il sistema delle piccole fattorie è un elemento di stabilità sia per l’ambiente che per la società: è stato questo ad esempio a salvare i paesi in crisi economica e politica come Cuba e Argentina. Inoltre resiste meglio anche ai cambiamenti climatici e agli uragani”.

Sul versante opposto c’è l’agribusiness, gestito da colossi come Monsanto e Cargill. “Il problema dell’agricoltura intensiva è che è fortemente dipendente da input esteriori: forti quantità di energia, acqua, fertilizzanti e sementi. La monocultura inoltre è intrinsecamente fragile: lo dimostrano la grande carestia delle patate in Irlanda, ma anche la recente epidemia del granturco nel 1970: 13 milioni di tonnellate perse in un anno. Pesticidi e diserbanti avvelenano sempre più il terreno, eppure l’impatto nocivo degli infestanti aumenta anziché diminuire”. Nel valutare l’agricoltura industriale bisogna tenere conto anche dei costi non dichiarati, per esempio in termini di emissioni, contaminazione ed erosione del suolo. “Alcuni dicono che la soluzione sia sempre quella di aggiungere ancora tecnologia. Ricordiamo però che la maggior parte delle monocolture nei paesi in via di sviluppo non serve a produrre cibo ma biocarburante o foraggio. Quasi tutto va in Europa, Usa o Cina: non un solo ettaro serve a sfamare le popolazioni locali”.

Quindi sarebbe meglio interrompere la produzione di biocarburanti? “Credo solo che le piante da biomasse occupino oggi una quantità sproporzionata di terreno; soprattutto non devono essere alternative ma coesistere con quelle da cibo. Il granturco impiegato per produrre 21,6  galloni di biocarburante (circa 82 litri, ndr) nutrirebbe una persona per un anno intero. Quanto ai biocarburanti, sarebbe meglio utilizzarli direttamente per le macchine agricole, visto che anche il trasporto costa molto in termini di energia e inquina”. 

Intanto si diffonde una nuova consapevolezza, in particolare in Sudamerica: lo dimostra anche la recente enciclica Laudato si’ del papa argentino Francesco, che cita in diversi punti i problemi connessi all’agricoltura, e in particolare elogia la ‘varietà di sistemi alimentari agricoli e di piccola scala che continua a nutrire la maggior parte della popolazione mondiale, utilizzando una porzione ridotta del territorio e dell’acqua e producendo meno rifiuti’ (129). “Cresce un nuovo movimento contadino – conclude Miguel Altieri –. I campesinos chiedono riforme agrarie, perché spesso chi sa coltivare non ha terra, e viceversa. E i governi iniziano ad ascoltarli: in Brasile è stato creato un apposito Ministério do Desenvolvimento Agrário. I contadini producono per sé e per gli altri, recuperano le terre devastate da monoculture e deforestazione. E poco a poco si stanno unendo, superando l’isolamento”. 

Daniele Mont D’Arpizio

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