UNIVERSITÀ E SCUOLA

“Polyphonie” l’eco in musica delle foreste d’Africa

Fondere suoni e ritmi africani con la tradizione della musica occidentale: è la vocazione di Classica Orchestra Afrobeat, l’ensemble fondato nel 2010 da Marco Zanotti, innamorato delle sonorità e della cultura nate alla fine degli anni Sessanta nella Nigeria di Fela Kuti. Il complesso guidato da Zanotti sarà tra i protagonisti di Risvegli, la rassegna primaverile all’Orto botanico dell’università di Padova. Il primo maggio l’orchestra eseguirà Polyphonie, l’opera che dà il nome al più recente disco inciso dal gruppo. Un lavoro non inserito a caso nel programma di Risvegli: meditazione sulla natura, eco di tutti i suoni che attraversano una foresta africana, Polyphonie trae spunto da Song from a Forest, il libro dell’etnomusicologo americano Louis Sarno.

Lo studioso, scomparso nel 2017, ha dedicato trent’anni della sua vita a inseguire una melodia: quella, ascoltata alla radio ad Amsterdam da giovane studente, che lo avrebbe portato a scoprire la tradizione musicale dei Bayaka, popolo pigmeo delle foreste della Repubblica Centrafricana. Una passione che diventerà scelta di vita, con il trasferimento definitivo di Sarno, nella seconda metà degli anni Ottanta, a vivere tra i Bayaka, registrando e studiando migliaia di brani polifonici (oggi in corso di digitalizzazione all’Università di Oxford) e offrendo materia per due film sulla sua storia, Oka! e l’omonimo Song from a Forest. A questa tradizione musicale (“Un karaoke che ha come base i suoni della natura”, si legge nella prefazione del libro) attinge Polyphonie di Classica Orchestra Afrobeat. “Per noi è una sfida”, racconta Marco Zanotti, fondatore del gruppo, “è la terza opera del nostro ensemble ed è la prima totalmente composta da brani originali”. All’Orchestra Afrobeat, il cui organico, come sempre, vedrà affiancati strumenti classici ed etnici, si affiancherà la voce solista di Njamy Sitson, artista e didatta del Camerun i cui studi spaziano dalla tradizione polifonica pigmea al barocco europeo, in linea con la commistione di stili e culture che caratterizza l’orchestra.

 

Classica Orchestra Afrobeat nasce otto anni fa dalla passione di Marco Zanotti per la musica nera: “Tutto parte da Fela Kuti e la sua rivoluzione musicale e sociale”, spiega. “Il nostro primo disco, Shrine on you Fela, è un omaggio al grande musicista, di cui reinterpretiamo l’opera guardando alla musica classica e barocca. Al disco ha collaborato anche Seun Kuti, figlio ed erede musicale di Fela”. Shrine on you Fela ottiene molti consensi, e fa guadagnare all’orchestra un invito al Festival di Glastonbury. Il secondo disco del complesso è Regard sur le passé, che narra in chiave epica le vicende di Samory Touré, fondatore in Africa Occidentale di uno tra gli ultimi imperi precoloniali del continente. L’opera è un racconto in musica, animato dalla presenza di due griot, i cantastorie che in Africa costituiscono vere e proprie caste, chiamate a preservare la tradizione orale delle loro terre. La composizione nasce in Guinea, dove è la band Bembeya Jazz a recuperare, alla fine degli anni Sessanta, la memoria di Touré e del suo impero, tramandata in forma mitica attraverso le generazioni. “Un lavoro segnato dal concetto di coralità, che acquisisce una connotazione rituale” aggiunge Zanotti. Si diceva che l’organico di Polyphonie è, secondo la linea del gruppo, composito: un quartetto di fiati, un trio d’archi, un clavicembalo, un basso e quattro percussionisti che suoneranno strumenti della tradizione africana e afroamericana.

Un’ibridazione continua, dunque, è alla base di Polyphonie come di tutta l’opera di Classica Orchestra Afrobeat. Una scelta che non è solo musicale: “Il messaggio di Fela Kuti”, conclude Marco Zanotti, “oltrepassa chiaramente la dimensione artistica, ampliandosi a una visione politica e socioculturale complessa. Per parte nostra ne cogliamo il senso di un’opposizione ai poteri forti: la dittatura militare, contro cui Fela ha combattuto subendo violenze di ogni genere. Ma anche le multinazionali, con le quali Fela polemizzava già alla fine degli anni Sessanta, anticipando di decenni il dibattito di oggi. E il senso della ‘contaminazione’, che è alla base dell’afrobeat e della musica di Tony Allen, il batterista di Fela poi staccatosi da lui, si traduce anche nei valori dell’integrazione tra culture ed etnie diverse”.

Ma ha senso richiamarsi oggi a una visione del mondo come quella di Fela Kuti, la cui utopia politico-musicale finisce per dissolversi in un conflitto permanente, offuscato dal narcisismo e da aspirazioni personalistiche? Forse è proprio il percorso di Tony Allen, che ancora oggi incarna l’eredità più autentica di Fela, a indicarci un’alternativa: nessun compromesso sui valori, ma accettando di vivere nella società. Nel tentativo, non meno ambizioso, di cambiarla dall’interno.

Martino Periti

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