SOCIETÀ

Il "prezzo" di una dieta sana e bilanciata

Cibo è cultura. Quante volte lo abbiamo sentito ripetere. Il proliferare di programmi televisivi dedicati alla cucina, l'imperversare di siti e blog con le ricette più varie, il susseguirsi, nel corso dell'anno e in ogni parte d'Italia, di rassegne enogastronomiche, le strenue battaglie dei produttori per la valorizzazione e la tutela delle tipicità locali mostrano quanto il cibo sia motivo di identità, condivisione e divertimento. Ma questa è solo una faccia della medaglia, quella che, di primo acchito, ci rende orgogliosi del riconoscimento che la cucina italiana gode nel mondo o che ci porta ad esaltare la dieta mediterranea, patrimonio immateriale dell'Unesco.

Allargando lo sguardo, però, possiamo dire di alimentarci tutti sufficientemente e allo stesso modo? Di seguire la tanto raccomandata “dieta sana e bilanciata”? Di saper dove e come nasce un prodotto, quali sono le sue proprietà nutrizionali, attraverso quale processo arriva sulla nostra tavola e quali implicazioni comporta per l'ambiente e per la nostra salute?

Expo, pur nelle sue contraddizioni, con il suo claim “Nutrire il pianeta, energia per la vita” e la sottoscrizione della Carta di Milano, ha ricordato quanto resti ancora da fare per “combattere la denutrizione e la malnutrizione, promuovere un equo accesso alle risorse naturali, garantire una gestione sostenibile dei processi produttivi” (da “La Carta di Milano”). Temi che esigono impegni precisi, in primis da parte dei governi e delle istituzioni. Alcuni dati snocciolati dalla Fao non lasciano margini di interpretazione: le persone che oggi soffrono di fame cronica sono stimate in circa 850 milioni; entro il 2050 si prevede che la popolazione mondiale passerà dagli attuali 7 miliardi a 9,2; per soddisfare la conseguente domanda di cibo la produzione dovrà crescere tra il 70 e il 100%.

Cosa ciò significhi in termini di sostenibilità ambientale, salute umana e per l'industria alimentare lo hanno spiegato tre docenti dell'università di Padova durante l’incontro “Cibo e cultura: margini di adattamento dell’alimentazione umana tra fabbisogni nutrizionali, qualità del cibo e sostenibilità ambientale”. Ad alternarsi al tavolo dei relatori sono stati Giuliano Mosca e Anna Lante del dipartimento di Agronomia animali, alimenti, risorse naturali e ambiente, e Paolo Tessari del dipartimento di Medicina.

“Il diritto al cibo resta una semplice affermazione ideologica se non la si correla al dovere di produrlo, ma il footprint, ovvero l'impatto ambientale, deve essere accettabile”, ha esordito il professor Mosca, sottolineando come ogni attività umana generi un'impronta sull'ambiente che può essere positiva, negativa o entrambe. A rilevarlo fu, nel 2000, il chimico olandese Paul Crutzen, che utilizzò il termine antropocene per definire l'attuale era geologica. Un'era caratterizzata da variazioni climatiche e ambientali causate principalmente dall'uomo e dalle sue attività.

A fronte di una crescita della popolazione stimata in due miliardi entro 35 anni, viene da chiedersi se le risorse a disposizione basteranno per tutti. “Pensando a questa evoluzione – ha spiegato l'ordinario di “Agronomia e Coltivazioni erbacee” –, sono varie le problematiche di cui tenere conto: la progressiva riduzione delle risorse primarie ed energetiche, segnatamente per acqua e prodotti petroliferi; il rincaro dei prezzi dei fattori produttivi, ovvero il trasporto, il magazzinaggio e l'essiccazione che hanno un costo significativo; la diminuzione, per contro, dei prezzi dei prodotti agricoli e zootecnici (si veda oggi la sofferenza dei produttori di latte); l'impatto sull'ambiente; il continuo e inarrestabile mutamento del clima che temiamo genererà dei fattori di restrizione importanti, in particolare sul fattore acqua”.

Anche considerando il binomio suolo/agricoltura, le prospettive sembrano tutt'altro che rosee. Nel 1950 ciascun abitante aveva a disposizione mezzo ettaro di terreno coltivabile. Per il 2050 la previsione è di cinque volte meno, ovvero pochi metri quadrati disponibili per generare quello che può servire. 

“È una questione di sopravvivenza? Io non la porrei in maniera così drammatica – ha aggiunto Mosca –. È probabile che si debba impostare una seconda rivoluzione verde. La prima, risalente all'incirca alla metà del secolo scorso, ha visto l'agricoltura innovare se stessa. La seconda potrebbe derivare dal fattore biotecnologico: la biologia applicata all'agricoltura può generare nuovi prodotti in termini sia quantitativi che qualitativi, mentre l'applicazione delle tecnologie può portare all'agricoltura di precisione. I fenomeni produttivi potrebbero essere gestiti con puntualità quasi ingegneristica in modo da non generare impatto, ma da avere le quantità e le qualità di produzione che ci interessano. Il tutto tenendo conto delle variazioni climatiche”.

La produzione di generi alimentari, sia di origine vegetale che animale, è in costante crescita. Negli ultimi 50 anni, il consumo di calorie derivate dalla carne è salito in Paesi come la Francia, la Cina, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Contestualmente, la quantità di superficie agricola in uso è superiore a quella che in realtà ci si può permettere: di questo ritmo, per sfamare tutta la popolazione mondiale entro il 2050 ci vorranno tre pianeti come la Terra. Ben vengano, dunque, una politica e una cultura volte al rispetto ambientale, ma occorre ragionare anche sulle vere esigenze dell'uomo.

“Il nostro corpo necessita di carboidrati, grassi, proteine, sali minerali, vitamine e acqua – osserva il professor Paolo Tessari –. Ogni gruppo presenta nutrienti essenziali e altri non essenziali, ossia che l'organismo riesce o meno a produrre da solo. I carboidrati, per fare un esempio, non sono essenziali. Se vengono a mancare per un periodo di breve/media durata, l'organismo riesce a produrseli. Non è così, invece, per le proteine che contengono degli aminoacidi che non siamo in grado di sintetizzare se non attraverso una dieta mista”.

Mista, appunto. Perché non tutte le proteine sono della stessa qualità e hanno un valore biologico uguale, utile per far crescere e mantenere l'organismo in buono stato nutrizionale. A fare la differenza è il contenuto dei singoli aminoacidi essenziali, che sono una ventina. Uno studio ha quindi posto in relazione tale contenuto in prodotti di origine animale e vegetale con le dosi giornaliere raccomandate, valutandone l'impatto ambientale.

“La carne bovina richiede l'uso di circa 19 metri quadrati di terreno per produrre un chilogrammo di prodotto commestibile, molto più della soia, del riso e del frumento, che dunque appaiono più vantaggiosi – ha illustrato Tessari –. Ma se guardiamo alla quantità minima che dia all'uomo gli aminoacidi essenziali, il discorso cambia. Se devo vivere solo di piselli, per esempio, consumo 11 metri quadrati di superficie per avere 100 grammi di prodotto, mentre per la carne bovina ne bastano 3. Fortunatamente, però, la nostra dieta è varia. Stando agli standard dei ricettari, è stato calcolato che per una porzione di risi e bisi bastano 4 metri quadrati per avere gli aminoacidi di cui abbiamo bisogno; per la pasta e fagioli ci vogliono 2,5 metri quadri, mentre il manzo si colloca a metà strada”. 

“Il solo dato di consumo ambientale (terra, acqua, emissioni), necessario per produrre una determinata quantità di calorie a scopo nutrizionale – è la conclusione del docente –, non tiene conto dell'adeguatezza nutrizionale degli alimenti prodotti. In tal senso, le proteine vegetali non risultano essere vantaggiose rispetto a quelle animali. Un mix di vari tipi di alimenti appare dunque il miglior approccio per garantire sia un'efficacia nutrizionale che un risparmio ambientale”.

Queste considerazioni possono avere un grande impatto nella progettazione del futuro sistema di produzione alimentare. Ed è qui che entra in gioco anche l'industria, chiamata a garantire la sicurezza e la qualità degli alimenti e, al contempo, a far fronte alle problematiche legate alla distribuzione e ai prezzi. 

In termini di sostenibilità, oggi l'industria alimentare punta a risparmiare acqua ed energia, migliorare la manutenzione degli impianti, utilizzare materiali più leggeri per l'imballaggio – indispensabile per proteggere i prodotti dalla contaminazione microbica e allungarne la durabilità – e a ridurre i costi della logistica. La grande sfida del futuro, tuttavia, sarà quella di valorizzare il rifiuto. 

“La grande sostenibilità dell'industria – ha rimarcato Anna Lante – dovrà puntare sull'individuazione del confine tra ciò che è rifiuto, ossia sostanza di cui ci sia intenzione e obbligo di disfarsi, e il concetto di sottoprodotto. Fondamentale, è stato il riconoscimento giuridico della nuova direttiva quadro sui rifiuti del 2008 che ha dato una connotazione di valore al sottoprodotto: prima era considerato qualcosa da eliminare, ora è ritenuto parte del processo produttivo; il suo ulteriore uso è legale, non porta effetti negativi sull'ambiente e la salute umana, e può essere utilizzato in altre filiere”. 

I sottoprodotti, infatti, possono essere reimpiegati in agricoltura, in ambito energetico (biogas e biomasse), nell'industria mangimistica o in quella alimentare, nell'industria cosmetica e farmaceutica, oppure diventare materiale fondamentale per la creazione di nuovi composti di chimica verde.

Un esempio arriva dal riso: dai residui di lavorazione del risone si possono ricavare la lolla oppure la pula. La lolla è un materiale ligneo cellulosico che può essere bruciato e da cui si può ottenere fumo liquido. Rispetto a quello derivante dalla legna, tale fumo è più sicuro in quanto è possibile ridurre la quantità di idrocarburi policiclici aromatici, quindi quando si procede alla fumicatura vi sono meno residui del prodotto finito. Inoltre il fumo liquido proveniente dalla lolla è un interessante aromatizzante naturale e può essere considerato un conservante naturale efficace anche per i grassi presenti in prodotti lavorati.

La pula, dal canto suo, è ricca di una proteina dall'alto valore nutritivo. Può essere utilizzata per realizzare nuovi emulsionanti, produrre schiume stabili da usare in cucina oppure preparazioni alimentari per la prima infanzia. 

“Il problema di questi sottoprodotti è recuperare i composti bioattivi senza rovinarli e causare danni all'ambiente. Utili sono gli enzimi. Nel caso del latte delattosato, per ridurre il contenuto di lattosio (è lo zucchero del latte formato da glucosio e galattosio) viene usato un enzima che si chiama lattasi. Esso riesce a tagliare il disaccaride a e dividerlo in due monosaccaridi, il glucosio e il galattosio. Il latte diventa così più dolce e può essere utilizzato anche da chi è intollerante”.

Insomma, le sfide che la produzione alimentare si pone per il futuro sono molte, ma, a detta del professor Mosca, c'è chi rema contro, ostacolando di fatto l'innovazione agricola.

Elena Trentin

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