SOCIETÀ

Per qualche metro e un po’ d’amore in più

“A noi interessa poter aver dell’intimità con i nostri cari e non pensiate che la parola intimità ricopra solo il significato di ‘sesso’, non banalizzate. L’intimità è anche una carezza sul viso di un figlio, di una moglie, oppure anche un rimprovero a voce grossa per un figlio che non studia. Questo accanimento nei nostri confronti di riflesso demolisce i nostri cari. Condannateci con le condanne che prevede il nostro codice penale, ma non condannate i nostri familiari con un codice che non esiste e che è più disumano del nostro”. Le parole di Lorenzo Sciacca, della redazione di Ristretti Orizzonti del Carcere Due Palazzi di Padova, sono contenute nel libro Per qualche metro e un po’ d’amore in più. Raccolta disordinata di buone ragioni per aprire il carcere agli affetti, recentemente pubblicato grazie a un crowdfunding: 416 pagine che raccontano sofferenze, pentimenti, nostalgie e speranze, 207 testi provenienti da oltre 60 carceri italiane e da una ventina di scuole superiori. Il volume, curato da Angelo Ferrarini, si apre con un’introduzione di Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, la rivista della Casa di reclusione di Padova e dell’Istituto di pena femminile della Giudecca, e presidente della Conferenza nazionale Volontariato Giustizia: “Non ci aspettavamo di ricevere questa valanga di testi che ci ha invece sommerso in tempi brevissimi: testi scritti a mano, molti in quello che è lo ‘stampatello da galera’, perché si sa che il carcere è rimasto uno dei pochi luoghi da cui si scrive tanto, e si scrive spesso a mano malgrado si viva ormai nell’era digitale; testi di tutti i generi, poesie, racconti, lettere, narrazioni autobiografiche; testi scritti da una platea allargata di persone che in qualche modo sono state toccate dal carcere, detenuti, figli, fratelli, amici, operatori, volontari”. E aggiunge: “Quel disordine, che abbiamo voluto mantenere nel libro, offre così il quadro dettagliato del disastro degli affetti in carcere, un disastro con tante sfumature, ma un’unica origine: quella di un Ordinamento penitenziario che, all’articolo ‘Rapporti con la famiglia’, riserva in tutto 19 parole: "Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”. 

Una telefonata a settimana, sei ore di colloquio al mese, ovvero tre giorni in un anno. La verità è che, quando non resta altro che il pensiero di chi ti vuole bene, un incontro diventa di vitale importanza. Una parola può salvare dal buio non solo chi sta dentro, ma anche chi aspetta fuori. Perché attorno a una detenzione c’è un universo di affetti e infinite attese. “Alla reclusione, intesa come pena individuale per una responsabilità personale, si aggiunge una pena suppletiva per il coniuge, per i figli, per i genitori, i quali soffrono per l’assenza del congiunto – spiega nel libro Veronica De Fina, sociologa, criminologa clinica e psicopatologa forense, volontaria nel carcere di Milano San Vittore – La detenzione di un familiare rappresenta un evento traumatico per tutta la famiglia. Siamo un Paese che ama parlare di famiglie e in questo caso si tratta di famiglie che non hanno colpe e che si trovano anch’esse vittime, perché involontariamente coinvolte nel processo punitivo di un reato che ha commesso un loro congiunto e non ricevono alcuna tutela dallo Stato”. 

I testi raccolti sono firmati dai detenuti e dalle loro famiglie, da studenti, coinvolti nel Progetto Scuola Carcere attraverso le attività di informazione sulle condizioni della vita carceraria e di prevenzione del reato, e dai volontari che svolgono attività negli istituti penitenziari italiani. Tra questi c’è Matilde Nicita, laureata in Psicologia e volontaria al carcere di Torino: il suo è un lungo e paziente racconto a tappe, mese dopo mese, incontro dopo incontro, dentro e fuori dai cancelli che separano quegli spazi dal resto del mondo: “Liberamente e obbligatoriamente ispirato ad affetti veri – scrive -. Il carcere inghiotte il cielo come una scatola ermetica inesorabilmente impermeabile allo sguardo del mondo e prosciugante lo sguardo sul mondo”. Il suo contributo prezioso, che aiuta a comprendere l’importanza degli affetti per evitare il rischio di estinzione degli aspetti più profondi dell’esistenza, nel finale si trasforma in una lettera a Ruggero, detenuto trasferito in un altro carcere e mai più ritrovato: “Ti tengo a mente – scrive Matilde – E, per prima cosa, spero ardentemente che tu sia vivo. M.N. Gennaio 2015”. 

Quando sono le detenute a scrivere, il sentimento si carica ancor più di emozione, portando con sé tracce d’amore e speranza, come si legge nella lettera di Natashja dal carcere di Vigevano: “Io, te e noi dobbiamo lottare per una vita migliore […] La mia bocca è secca e il mio cuore batte solo per te”. Altre volte, l’amore è quello di una madre ed è la separazione dai figli il pensiero fisso, è questo l’unico tormento e al tempo stesso l’unico aggancio alla vita. Girolama scrive dal carcere di Agrigento: “In questo incubo che sto vivendo, siete voi figli miei che mi date la forza per andare avanti. Voglio dirvi grazie per quello che ogni giorno fate per me. Mi rendo conto oggi che siete miei figli speciali e quanto amore mi date quando mi venite a trovare. Io mi sento una mamma indifesa in queste quattro mura”. 

Infine, ma prima di tutto, ci sono le parole di chi sta fuori, dei parenti che oltre le sbarre scontano la pena dell’assenza, che attendono la fine di una condanna o, a volte, solo un colloquio. Il libro raccoglie anche le riflessioni e le lettere di quei figli che provano ingiustamente vergogna perché, come scrive Ornella Favero, a scuola non sanno rispondere alla domanda: cosa fa il tuo papà? Figli che devono essere aiutati, sostenuti. Ma anche mogli, mariti e genitori ‘fuori’ condannati a vivere una vita ‘senza’. Scrive Serena, figlia di Lara, detenuta nel carcere di Pozzuoli: “Per mammina adorata mamma. Quante volte pronuncio il tuo nome nei momenti di gioia, per condividere con te la mia allegria. Quando sono triste, sperando che tu scacci via la mia malinconia”. 

Francesca Boccaletto

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