SOCIETÀ

"The reluctant European”: la Gran Bretagna e l’integrazione europea

Lo scorso 3 novembre l’Alta Corte britannica ha sentenziato che il governo di Londra non potrà attivare l'articolo 50 del Trattato di Lisbona (che permette l'avvio dei negoziati per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea) senza il via libera del Parlamento. La sentenza probabilmente non bloccherà la Brexit, perché il Parlamento non vorrà andare contro il voto popolare, ma sicuramente influenzerà i negoziati tra la Gran Bretagna e UE e probabilmente li rallenterà. Dopo lo shock del referendum del 23 giugno, le vicende europee del Regno Unito sono quindi tutt’altro che concluse e continuano ad avere ripercussioni non solo nei rapporti con gli altri Paesi europei, costretti a dover affrontare un’Europa senza Londra, ma anche sul piano interno. Ma quanto è – o era – europea la Gran Bretagna?

Il processo di costruzione europea è proseguito senza Londra per oltre vent’anni prima che, nel gennaio del 1972, il Regno Unito diventasse membro della Comunità Europea, peraltro dopo un decennio di veti, ripensamenti e difficili negoziati. Questo perché, all’indomani della seconda guerra mondiale, la scommessa di un’Europa unita non era considerata sufficientemente sicura per una Gran Bretagna che si trovava a dover pagare duramente la recente vittoria: il Regno Unito aveva la psicologia del vincitore, ma la sua situazione economica si avvicinava di più a quella di un perdente. Winston Churchill ha descritto nel 1948 i famosi “tre cerchi” – ovvero le tre aree di influenza – della politica estera britannica: l’impero e il Commonwealth, il mondo anglosassone (in particolare la special relationship con gli Stati Uniti) e l’Europa. Nell’immediato secondo dopoguerra, i primi due cerchi sono stati sicuramente preponderanti per la politica britannica; nel contempo, il Regno Unito si era allontanato dal terzo cerchio, quello europeo, proprio nel momento in cui gli altri paesi del vecchio continente avevano deciso di dare il via al progetto di integrazione.

Solo dopo i fatti di Suez del 1956, quando una vera sconfitta aveva assestato un colpo duro e duraturo all’autostima nazionale e al prestigio internazionale del Paese, il Regno Unito aveva cominciato a prendere in considerazione un ruolo attivo nell’integrazione europea. Per ben due volte, nel 1961 e nel 1966, il governo di Londra tentò di entrare a far parte della Comunità Europea ed entrambe le volte si dovette scontrare con l’intransigenza francese e il veto del generale de Gaulle, preoccupato che la Gran Bretagna potesse rivelarsi un “cavallo di Troia” al servizio degli Stati Uniti.

La scelta europea può essere pertanto considerata uno spartiacque nella storia del Regno Unito, ma non ha modificato in maniera altrettanto netta i rapporti tra Londra e Bruxelles. La Gran Bretagna non è mai riuscita davvero a scrollarsi di dosso quell’alone di sospetto che aveva caratterizzato i suoi tentativi di adesione. Anzi, sin da subito ha acquisito la reputazione di “partner difficile” per la sua riluttanza ad accettare la legislazione comunitaria: i continui disaccordi sui contributi e sulla politica agricola hanno portato gli altri stati membri a dubitare dell’impegno inglese. Questo in parte è dovuto al carattere più razionale che ideologico di questa scelta europea tardiva, considerata in ultima analisi come una extrema ratio per risollevare le sorti del Paese e recuperare una nuova dimensione sullo scenario internazionale: quel ruolo che, nelle parole del Segretario di Stato americano Dean Acheson, Londra non aveva ancora trovato dopo la perdita dell’impero.

Di certo la Gran Bretagna non ha fatto molto per cancellare i pregiudizi nei suoi confronti all’interno della Comunità Europea prima e dell’Unione Europea poi: in questo senso il punto più basso nelle relazioni con Bruxelles è stato raggiunto durante gli anni di Margaret Thatcher, caratterizzati dall’interminabile disputa sul contributo britannico al budget comunitario riassunta dal celebre slogan “I want my money back”. Eppure la partecipazione del Regno Unito al progetto comunitario non è stata messa in discussione, nemmeno nei momenti più bui degli anni Ottanta: si trattava piuttosto di cercare di ottenere il massimo da una situazione ritenuta certo sfavorevole, ma oramai divenuta parte dell’identità stessa del Paese. Tanto che, una volta risolto il problema del budget, la Gran Bretagna è stata più pronta e capace di contribuire a dare forma al futuro dell’Europa, come dimostrato, ad esempio, nel ruolo attivo nei lavori preparatori all'Atto Unico Europeo. Tuttavia, nei decenni successivi l’immagine di Londra è stata inesorabilmente associata all’opting out e alla volontà di restare in Europa solo alle proprie condizioni.

Tornando ai nostri giorni, è necessario capire cosa succederà ora, visto anche il recente “terremoto politico” negli Stati Uniti che naturalmente porterà a una ridefinizione anche dei rapporti con Washington. Nigel Farage e Theresa May sono già in competizione per conquistarsi il favore di Donald Trump: al momento il leader dell’UKIP è in testa, essendo stato il primo politico britannico – e straniero in assoluto – ad avere incontrato il nuovo presidente eletto degli Stati Uniti. Sono le basi per un revival della special relationship come ai tempi di Reagan e Thatcher? I prossimi mesi saranno cruciali, anche per capire se effettivamente, come ha detto Aldo Moro, l’Europa non è Europa senza la Gran Bretagna.

Giulia Bentivoglio

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