SCIENZA E RICERCA
Rifiuto delle cure, un atto senza scadenza
Febbraio 2009: materiale di propaganda durante una manifestazione a favore del testamento biologico a Roma. Foto: Tania/A3/contrasto
L’ordinamento italiano non prevede, a differenza di altri Stati europei, la possibilità di dichiarare quali trattamenti sanitari accettare o rifiutare nel caso, in futuro, ci si trovasse in condizione di incapacità. È il cosiddetto “testamento biologico”, espressione sgradita agli studiosi che le preferiscono “direttive (o dichiarazioni) anticipate di trattamento”. Per ovviare a questa lacuna, negli ultimi anni si è affermato un orientamento della giurisprudenza che tende ad accreditare un modo alternativo per ottenere lo stesso obiettivo. Il mezzo utilizzato è l’istituto dell’amministrazione di sostegno, creato dalla legge 6 del 2004; l’amministratore di sostegno ha il compito di provvedere, su nomina del giudice tutelare, alla salvaguardia delle esigenze e degli interessi di una persona che non sia in grado di farlo, a causa di una infermità temporanea o permanente. Studiosi e magistrati hanno convenuto che la figura individuata dalla legge del 2004 non deve limitarsi ad atti che riguardano il patrimonio del tutelato, ma può intervenire a protezione della sua salute: molte sentenze di giudici tutelari, così, hanno avallato l’orientamento secondo cui l’amministratore di sostegno può divenire strumento per esprimere decisioni riguardo ai trattamenti medici cui sottoporre la persona in stato di incoscienza, secondo le disposizioni lasciate in precedenza dallo stesso tutelato o in base alla ricostruzione che ne compie l’amministratore.
Una ricerca di un gruppo di studiosi dell’Università di Padova (Matteo Bolcato, Vittoria Marchese, Pamela Tozzo) coordinati da Daniele Rodriguez ha esaminato oltre 50 decreti di giudici tutelari intervenuti sull’argomento. Lo studio, presentato al congresso della società scientifica di medicina legale Comlas (Coordinamento medici legali aziende sanitarie) ha vinto il Premio Jourdan 2015. La ricerca, che ha permesso di inquadrare correttamente le diverse pronunce giurisprudenziali, chiarisce come i casi affrontati siano riconducibili a tre situazioni-tipo. Il ricorso per la nomina dell’amministratore di sostegno, ai fini dell’attuazione successiva della volontà del tutelato, può avvenire prima o dopo che sia intervenuta l’incapacità del beneficiario. Se la richiesta avviene prima, quando cioè il beneficiario è ancora pienamente cosciente e capace, può fondarsi su due motivazioni: la previsione di un’incapacità probabile e imminente (è il caso di chi è affetto da una malattia progressiva, o è alla vigilia di un intervento chirurgico complesso) oppure (se il ricorrente è ancora in buona salute e non ci sono elementi per prevederne un rapido deterioramento) il desiderio di pianificare le scelte mediche nell’ipotesi in cui, in futuro, non si fosse in grado di farlo. Il terzo caso è quello del ricorso che avviene quando il beneficiario sia già in stato di incoscienza: la richiesta può essere presentata da alcuni soggetti espressamente individuati dalla legge (come ad esempio il coniuge o i parenti entro il quarto grado) al fine di esprimere la volontà del tutelato, con riguardo alle dichiarazioni che abbia formalizzato in passato o gli intenti che vengano ricostruiti in base alla valutazione di elementi come “lo stile di vita, la personalità, le convinzioni etiche e religiose, culturali e filosofiche del beneficiario” (così si esprime nel 2012 il Tribunale di Reggio Emilia).
Queste tre situazioni-base hanno dato vita a decisioni variegate e talvolta contrapposte. Il cuore del problema, giuridico e filosofico insieme, è il valore da attribuire a dichiarazioni pronunciate in passato dal paziente e, nel momento in cui subentri l’incapacità, da lui non più revocabili. Sembra una contraddizione in termini, dal momento che il senso delle manifestazioni anticipate di volontà è proprio quello di prevenire l’impossibilità di farlo: eppure dottrina e giurisprudenza si interrogano su quanto conti il lasso di tempo tra la dichiarazione sottoscritta e il momento dell’attuazione di quelle decisioni. Senza contare che l’attuale codice di deontologia medica, pur richiedendo al medico di “tener conto” delle volontà espresse “in forma scritta” dalla persona capace e informata, si guarda bene dal teorizzare un preciso obbligo di esecuzione di queste volontà: il sanitario rimane libero di verificare la “congruenza” delle dichiarazioni anticipate con l’effettivo stato del paziente, e quindi di agire in autonomia (principio riaffermato dalla Cassazione). Quando poi si valuta la più controversa delle ipotesi, quella in cui la volontà del paziente non è documentata ma viene ricostruita dall’amministratore di sostegno con argomentazioni induttive, il dibattito sulla legittimità di questa operazione diviene acceso.
Un punto fermo, tra i diversi orientamenti, è stato posto dalla Cassazione nel 2012: la corte ha stabilito che la nomina dell’amministratore di sostegno implica l’esistenza manifesta “di una condizione di infermità o incapacità della persona”: di conseguenza, indicare una figura in grado di decidere in futuro sulla propria salute, quando ancora l’infermità non si sia palesata, è un atto che non può produrre effetti pubblici finché dura la buona salute. È la pietra tombale sul principio delle direttive anticipate? Secondo gli autori della ricerca, una domanda simile nasce da un fraintendimento su ciò che si deve intendere per “anticipato”, riferendoci alle dichiarazioni sui trattamenti sanitari cui sottoporsi. Per i tre studiosi, è impensabile considerare la validità di una decisione (come il rifiuto di certe cure) valutando quanto essa sia recente o “invecchiata” rispetto al momento in cui è stata comunicata. Se così fosse, argomentano, ogni volontà che non fosse espressa perfettamente in contemporanea con l’adozione di un certo atto medico sarebbe necessariamente inattuale, e quindi la sua validità sarebbe sempre discutibile: con la conseguenza che quasi ogni decisione terapeutica ricadrebbe sotto l’esclusiva determinazione del medico. Secondo gli studiosi, quando una persona malata (o che ragionevolmente si ammalerà) manifesta una volontà, non si riferisce mai a un singolo atto terapeutico, ma a un progetto di cura di medio-lungo termine. Se la persona è adeguatamente informata sul suo stato e sulla probabile evoluzione della malattia, dunque, la sua decisione (come il rifiuto di certe cure) deve per forza conservare validità nel tempo: anche quando sopravvenga lo stato di incoscienza. Secondo questa impostazione, dunque, il concetto di “anticipo” nell’espressione della volontà perde senso, perché nella maggior parte dei casi la volontà espressa non è “anticipata”, ma sempre attuale. Di qui la conseguenza pratica: secondo i tre ricercatori, questa impostazione rende del tutto superfluo ricorrere all’amministratore di sostegno come tramite per l’espressione di una volontà che, secondo loro, rimane salda e valida anche dopo la perdita della capacità. Dichiarazioni “anticipate” in senso proprio, secondo gli autori, avverrebbero solo in due casi: quando siano espresse da una persona in piena salute senza previsione di patologie (ma in questo caso la Cassazione non consente la nomina dell’amministratore di sostegno, e quindi svuota il senso dell’atto), oppure quando la persona è già incosciente, ma ha lasciato delle direttive quando era in buona salute (e questo è l’unico caso in cui, legittimamente, il giudice debba pronunciarsi su dichiarazioni tecnicamente “anticipate”).
In conclusione, secondo gli autori, valutare l’espressione della volontà della persona malata (o a serio rischio di ammalarsi) come dotata di una validità sempre attuale, non inficiata dalla successiva perdita di coscienza, non solo rende quasi sempre superflua la nomina di un soggetto esterno per attuare (o interpretare) i desideri dell’assistito, ma risolve radicalmente i dubbi su quanto queste dichiarazioni siano realmente vincolanti. Secondo questa prospettiva, la volontà del malato rimarrebbe sempre centrale, evitando la ridda di dubbi e interpretazioni sul ruolo e i poteri dell’amministratore di sostegno.
Martino Periti