SOCIETÀ

Le sabbie immobili della disuguaglianza / 2

Chi volesse guardare al fenomeno dell’accresciuta disuguaglianza economica negli Stati Uniti con la lente di ingrandimento farebbe bene a farsi un giro per una qualsiasi delle principali città americane, sia essa Cleveland in Ohio o Dallas in Texas. Di recente, due ricercatori del Brookings Institution a Washington DC, Alan Berube e Natalie Holmes, hanno preso ad analizzare i dati sui redditi dei residenti delle grandi metropoli di questo paese per capire come essi evolvono di anno in anno e, di conseguenza, quanto profonde sono le interazioni commerciali tra i tanti ceti socio-economici che le popolano. E hanno innanzitutto comprovato con i numeri quello che già si immaginava intuitivamente, ovvero che i conglomerati urbani funzionano da microcosmo in cui la disuguaglianza tende a essere più acuta che altrove.

In secondo luogo, hanno rilevato che la situazione è più grave di quanto si pensasse e sta peggiorando ulteriormente. “La disuguaglianza di reddito nelle grandi città rimane superiore a quella che si riscontra in altri posti, ed è cresciuta ulteriormente nel 2013 – dice Berube – In una serie di grandi città, i redditi sono cresciuti al top della piramide socio-economica, ma non alla base, il che suggerisce che i guadagni in aumento dei ricchi non hanno alcun effetto positivo sui redditi dei poveri”.

Il fatto che le aree metropolitane presentino maggiore disuguaglianza di altre parti del paese dipende da una loro caratteristica peculiare e piuttosto ovvia, e non è necessariamente un problema di per sé. In linea generale, infatti , da un lato, in esse si concentra un numero particolarmente elevato degli impieghi pagati più generosamente, avvocati, medici, finanzieri, professionisti del settore tecnologico e via dicendo. Dall’altro, grazie sia alla maggiore quantità di alloggi a prezzi calmierati e alla più estesa rete di servizi pubblici, inclusi i trasporti, che esse offrono ai residenti meno benestanti, sia alle dimensioni e alla profondità del mercato locale, che è quindi più grande e più diversificato di quanto si possa trovare in un piccolo paese o in campagna, esse attirano anche tanti lavoratori poco qualificati e mal retribuiti. Nella loro prima analisi l’anno scorso – effettuata sulla base di dati del Us Census Bureau e della cosiddetta “proporzione 95/20”, che in pratica misura “la distanza tra una famiglia con entrate che sono appena superiori al 95% di tutti i redditi e un’altra che invece guadagna appena di più del 20% della popolazione” – Berube e Holmes hanno calcolato che nelle 50 città americane più grosse, nel 2012, la disuguaglianza corrispondeva a un rapporto del 10,8 rispetto alla media nazionale del 9,1 (ovvero il primo gruppo di famiglie ha entrate 10,8 volte superiori al secondo).

Fin qui, come detto, tutto come previsto. I due studiosi di Brookings hanno, però, ripetuto l’esercizio quest’anno, scoprendo che il gap tra città e resto del paese è andato aumentando in maniera sorprendentemente rapida. Nel 2013, infatti, il rapporto 95/20 è passato, a livello nazionale, al 9,3, mentre nelle grandi città si è saliti addirittura all’11,6. Questo significa che la disuguaglianza sta crescendo in tutti gli Stati Uniti, però molto più velocemente nelle aree metropolitane che altrove. In dodici città in particolare, i redditi dei più ricchi sono cresciuti immensamente in soli dodici mesi tra il 2012 e il 2013: a San Francisco, dove vivono i miliardari dell’industria tech, addirittura l’aumento è stato di 66.000 dollari in media; a Seattle, patria tra le altre di Amazon e Starbucks, di 36.000 dollari; a San Jose in California, dove hanno sede molte aziende della Silicon Valley, di quasi 34.000 dollari. Nel frattempo, i redditi dei lavoratori meno abbienti sono avanzati quasi ovunque, ma assai più lentamente, in particolare proprio in quelle città in cui i professionisti più agiati hanno fatto i passi avanti più cospicui. Solo a Jacksonville, Houston e San Francisco, città in cui l’economia ha evidentemente tirato per tutti, sia ricchi che poveri hanno guadagnato significativamente di più nel 2013 che nel 2012, anche se i primi hanno beneficiato di un tasso di crescita comunque maggiore dei secondi. Nel caso di San Francisco, ad esempio, questi ultimi hanno visto le proprie entrate aumentare in quell’arco di tempo di 3.000 dollari in media, ovvero il 15% contro il 18% per le famiglie che rientrano nel 5% meglio retribuito.

“In tanti pensano che l’aumento dei redditi al top generi un aumento della domanda per quel tipo di merci e servizi offerti dai lavoratori meno qualificati: domestici, commessi, camerieri – dice Berube – Ma se aumentano i guadagni dei ricchi e non quelli dei poveri, mi viene il sospetto che i due gruppi vivano come in due economie separate, anche all’interno della stessa città”. In sostanza, anziché immaginare le grandi metropoli come spaziosi complessi abitativi in cui i residenti si muovono liberamente da appartamento ad appartamento e possono, se non coabitare, perlomeno rendersi visita reciprocamente e prestarsi il sale e il latte, faremmo meglio a pensarle piuttosto come condomini a più piani, con i ricchi in alto e i poveri in basso, senza scale o ascensori che colleghino gli uni agli altri.

Secondo Berube, il fenomeno delle economie separate è molto importante perché ci mostra che, da sole, le forze di mercato non sono in grado di chiudere, o anche solo diminuire, il gap tra i ricchi e i poveri. Bisogna quindi ripensare le politiche pubbliche urbane. “Le città devono affrontare il problema della disuguaglianza su più livelli – dice Berube – Numerose amministrazioni stanno sperimentando con l’aumento del salario orario minimo, che indubbiamente può aiutare a migliorare i guadagni dei lavoratori peggio pagati. Ma poche municipalità stanno facendo uno sforzo davvero integrale, attaccando il problema da più fronti, dall’istruzione agli alloggi”. Tra queste vi è proprio Seattle, una delle aree metropolitane in cui, come abbiamo visto, la distanza tra residenti benestanti e non sta crescendo più rapidamente. Tra le altre cose, il comune ha di recente approvato lo stanziamento di fondi aggiuntivi per finanziare servizi di asilo nido e scuola materna per tutti e sta provando ad accrescere sostanzialmente la disponibilità di alloggi che hanno affitti convenienti. “Queste però sono spesso strategie difficili da attuare e comunque di lungo periodo, che necessitano del sostegno di più amministrazioni consecutive – conclude Berube – E anche gli aumenti del salario orario minimo sono entrati in vigore solo nell’ultimo anno, e in svariati posti non ancora, quindi bisogna aspettare un paio di anni per analizzare i dati e capire davvero se stanno avendo un impatto”.

Valentina Pasquali

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