SCIENZA E RICERCA

Gli scienziati dalla parte del bene

La scienza, ha scritto per il Bo Alessandro Pascolini, da sempre contribuisce in maniera decisiva allo sviluppo di armi micidiali. Eppure, insegna la storia, sono moltissimi gli scienziati che hanno usato le loro conoscenze per migliorare le condizioni di vita, anche durante le guerre.  Ne parliamo con il fisico Piero Martin, del dipartimento di fisica e astronomia dell’Università di Padova, che assieme alla giornalista scientifica Alessandra Viola il 24 ottobre terrà una conferenza al festival della scienza di Genova sul ruolo degli scienziati tra guerra e pace nell’ultimo secolo. 

“In ogni epoca si possono trovare esempi positivi – spiega Martin – in cui la scienza ha aiutato la pace e lo sviluppo, e negativi, in cui invece è stata sfruttata per finalità belliche”. Partiamo dal 1915, con le sanguinose battaglie della prima guerra mondiale. “Nei campi di battaglia vengono sperimentati per la prima volta i gas chimici; d’altra parte però ci sono anche persone straordinarie come Marie Curie, che utilizza le sue ricerche per aiutare i feriti sui campi di battaglia”. Per assistere soldati e civili la grande scienziata francese di origine polacca predispone assieme alla figlia Irene, completamente a sue spese, una serie di camioncini equipaggiati con i primi strumenti radiografici: le famose Petit Curie. In questo modo mette a frutto la scoperta dei raggi X di Wilhelm Conrad Röntgen di 20 anni prima. “Del resto questa grande scienziata, unica donna a vincere due premi Nobel, fu sempre sensibile alle conseguenze delle sue scoperte: basti pensare che qualche anno prima aveva isolato il Polonio ma poi si era rifiutata di brevettarlo, ritenendo che i benefici dovessero essere accessibili a tutti”.

Per amore della pace diversi scienziati hanno avuto anche il coraggio di schierarsi contro i loro stessi governi. Come il fisico sovietico Andrej Sacharov: “brillantissimo enfant prodige, fu tra i responsabili del programma di sviluppo del più potente ordigno nucleare mai testato: la bomba Tsar, 3000 volte più potente dell’atomica di Hiroshima, che il 30 ottobre 1961 distrusse ogni cosa nel raggio di 35 chilometri dall’obiettivo (la baia di Mityushikha, su un’isola a nord del Circolo Polare Artico), sprigionando addirittura un terremoto del 5,5 grado sulla scala Richter. Proprio in quest’occasione Sacharov inizia però a sviluppare fortissimi interrogativi personali, sulla guerra e sulla divisione del mondo in blocchi, che lo porteranno a divenire uno dei più autorevoli dissidenti sovietici. In seguito fonderà un Comitato per i diritti umani e nel 1975 gli verrà assegnato il premio Nobel per la pace”.

Storie come questa gettano luce sui dilemmi a cui sono stati sottoposti gli uomini di scienza durante le epoche più buie della nostra storia: “Pensiamo al caso più famoso, quello dei ricercatori coinvolti nel progetto Manhattan per lo sviluppo della bomba atomica – continua lo studioso –. La scelta era tra l’incubo della vittoria del nazifascismo e l’olocausto nucleare di Hiroshima e Nagasaki. Oggi per fortuna noi fisici non siamo più di fronte a questioni così drammatiche”. Piero Martin oggi è responsabile di una task force sperimentale di oltre 300 ricercatori del Consorzio EUROfusion, che raggruppa 29 organizzazioni di ricerca e università da 27 Paesi dell’Unione Europea.  “Nell’ambito in cui lavoro, quello della fusione nucleare, migliaia di studiosi di tutto il mondo collaborano insieme allo sviluppo di una fonte di energia finalmente pulita e pacifica”. 

Un discorso a parte meriterebbe la questione dell’uso pacifico di tecnologie inizialmente messe a punto per un uso bellico: si pensi ai sonar, inventati per scovare i sottomarini, il cui sviluppo comincia negli anni della prima guerra mondiale e apre la strada all’applicazione degli ultrasuoni, alla base dei moderni apparecchi per l’ecografia. Oppure ai radar, fondamentali anche per lo sviluppo dell’aviazione civile. Lo stesso sviluppo del nucleare civile da fissione parte proprio dalle ricerche di Enrico Fermi durante la seconda guerra mondiale. Periodo nel quale per la prima volta il genere umano si trova di fronte alla terrificante possibilità di una completa autodistruzione. Nel 1953 il presidente Eisenhower tiene alle Nazioni Unite il discorso Atoms for peace, in cui lancia un appello affinché tutti i paesi si uniscano per l’uso pacifico di questa terribile forza. “Purtroppo questo non fermò decenni di corsa agli armamenti – spiega Martin – ma aprì le porte alla ricerca sull’uso pacifico della fisica atomica, che sviluppò tra l’altro i primi reattori a fissione, dai quali derivò l’uso su larga scala di questa sorgente di energia elettrica, oltre a molteplici altre applicazioni”.

Nel 1958 poi, durante una conferenza ONU a Ginevra, prende forma il grande progetto della fusione: portare sulla terra il processo che alimenta il sole”. Si tratta di uno dei pochi ambiti in cui, nonostante la guerra fredda, i due grandi blocchi hanno sempre collaborato: “Scienziati Usa e sovietici, a partire dagli anni ’60 e nonostante la  grande tensione politica, continuano a vedersi, scambiarsi dati e articoli, visitare i rispettivi laboratori. C’è comunque la sensazione che si tratti di una sfida fondamentale per l’umanità nel suo complesso. I programmi sulla fusione sono tra le eredità più importanti di quel periodo. Intanto nel 1954, sempre a Ginevra, era nato il Cern: una delle maggiori imprese scientifiche dell’ umanità”. Proprio grazie al Cern, tra l’altro, è possibile leggere questo articolo: qui infatti nel 1991 Tim Berners-Lee inventerà il web moderno. Ma questa è un’altra storia. 

Oggi, anche in tempi di relativa pace e sicurezza gli scienziati sono comunque chiamati ad un ruolo importante per la società: “Ad esempio lavorando per tecnologie sostenibili e compatibili con l’ambiente, i cui i frutti migliorino il mondo in cui viviamo e siano resi disponibili a tutti. In secondo luogo gli studiosi sono chiamati alla trasparenza e alla condivisione delle conoscenze, sia tra loro che verso l’opinione pubblica e i governi. Condividere il sapere garantisce anche uno screening etico e scientifico reciproco e fornisce alla comunità strumenti culturali per meglio interpretare il mondo che ci circonda e per indirizzare e controllare l’azione politica”. Oggi agli studiosi è sempre più richiesta la capacità di mettersi in discussione e soprattutto di comunicare al di fuori del proprio ambito: “Comunicare la scienza è un esercizio di democrazia e di cittadinanza attiva, in cui lo scienziato ha un duplice ruolo: spingere sempre più oltre la frontiera della conoscenza, ma allo stesso tempo mettere in comune i risultati delle sue scoperte. Ognuno su questo deve dare il suo contributo per un’umanità sempre più consapevole e pacificata”.

Daniele Mont D’Arpizio

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