UNIVERSITÀ E SCUOLA

Stati Uniti, abili nei quiz, rimandati in scrittura

Nel 2013, Natalie Wexler, consulente, attivista e blogger che si occupa di educazione a Washington DC, cominciò a condurre un corso supplementare di scrittura in un istituto pubblico della capitale americana tra quelli a più alto tasso di povertà, i cui alunni provengono prevalentemente da famiglie con mezzi finanziari limitati e ne soffrono le ben note conseguenze. Pur conscia, già prima di iniziare, delle grosse difficoltà con cui si sarebbe scontrata, Wexler scrisse qualche mese più tardi sul proprio blog di essere rimasta “scioccata” dal livello di competenze linguistiche mostrato dai ragazzi. E commentò: “I problemi sono più profondi dell’ignoranza delle regole di grammatica, ortografia e punteggiatura. Molti studenti non hanno idea di come si scrive un paragrafo completo, figuriamoci un tema di cinque paragrafi che sia coerente nel suo complesso. Non capiscono come fare un collegamento tra un’affermazione e la sua dimostrazione, una necessità assoluta quando si costruisce un’argomentazione logica. Queste non sono solo competenze che riguardano la scrittura. Ma piuttosto la capacità di pensare nella maniera di cui gli studenti hanno bisogno per avere successo all’università, sul lavoro, o anche solo per potere contestare un addebito sulla carta di credito o per poter esercitare il diritto di voto in maniera consapevole”. Il disagio espresso con la scrittura mostrato dagli studenti di Wrexler, inoltre, non era limitato solo a quelli poveri. Tutt’altro: questo è un fenomeno che colpisce tutti i giovani americani che, a quanto pare, non sanno proprio scrivere. 

Il National Center for Education Statistics (NCES) produce regolarmente valutazioni delle competenze possedute dagli studenti al primo e all’ultimo anno di scuola superiore nelle varie discipline. L’ultimo rapporto sulla scrittura risale al 2011 e rivela che, a livello nazionale, meno di un quarto di essi era capace di scrivere in maniera appropriata al proprio grado di istruzione (“proficient” in inglese), e appena il 3% era da considerarsi avanzato. Poco più del 50% aveva abilità rudimentali. Secondo la definizione di NCES, essi padroneggiavano, e solo parzialmente, i concetti di base, quelli su cui eventualmente si può costruire una preparazione dignitosa. E il 20% circa non arrivava nemmeno a quello. Tra gli studenti meno abbienti, i risultati erano ancora peggiori, con l’11% che si mostrava competente, l’1% avanzato, il 56% con abilità minime e ben il 32% che non possedeva neanche quelle. Questi risultati rimanevano piuttosto costanti dalla prima alla quarta superiore (il nostro quinto anno non ha equivalenti negli Stati Uniti). Il che suggerisce che gli studenti progrediscono sì di pari passo, ma anche che la scuola fa poco per aiutare chi resta indietro a mettersi in pari. Sembra invece superiore l’impatto positivo dell’università. Se l’81% dei datori di lavoro dichiarava, in uno studio statistico di The Conference Board pubblicato nel 2006, che i neo-diplomati erano “carenti” quanto alla comunicazione scritta, meno del 28% diceva lo stesso dei neo-laureati (1 su tre rimane comunque un dato molto elevato). 

“In generale, gli Stati Uniti non hanno mai sposato l’idea, che è invece diffusa in Europa, che saper scrivere testi lunghi e complessi sia la maniera migliore di mostrare le proprie conoscenze in una determinata materia – dice Judith Langer, docente alla State University of New York di Albany – non si tratta di un fenomeno nuovo. È un problema che esiste da molto tempo, almeno negli ultime tre, quattro decenni. Ci sono stati peggioramenti e miglioramenti temporanei, ma non è mai stato davvero risolto, così come non si è nemmeno aggravato particolarmente”.  Secondo un rapporto del NCES del 1998, ad esempio, meno del 25% degli studenti americani che frequentava il primo o l’ultimo anno di superiori aveva abilità di scrittura “proficient”, l’1% aveva competenze avanzate, il 58% basilari e un po’ meno del 20% insufficienti. 

Il problema sta dunque, secondo Langer e altri esperti, nel modo in cui viene insegnata la scrittura nelle scuole americane. “Le composizioni più lunghe con cui si cimentano gli studenti con un po’ di regolarità sono di un paragrafo al massimo – dice la direttrice dell’Albany Institute for Research in Education e del Center on English Learning and Achievement – E con esercizi di scrittura ci si riferisce anche al compilare le parti mancanti di testi già redatti e al prendere appunti mentre i docenti fanno lezione”. Al massimo agli alunni viene data di quando in quando la possibilità di scrivere un “tema libero” sulle proprie esperienze ed emozioni personali. 

Se questo approccio è diffuso nel Paese almeno dagli anni Settanta, l’ossessione con i test standardizzati, spesso a crocetta multipla, è cresciuta in particolare da quando l’ex presidente George W. Bush fece approvare la legge No Child Left Behind – che in sintesi collega i punteggi con cui gli studenti superano gli esami statali ai finanziamenti federali erogati alle scuole. Sotto pressione del governo di Washington, i docenti si sono ritrovati così obbligati a concentrare tutte le proprie energie a preparare i propri alunni a rispondere alle domande d’esame, abbandonando quindi la didattica più in senso generale. “Il modello è diventato quello di insegnare direttamente a superare i test”, dice Langer.

Negli ultimi anni, l’amministrazione Obama ha introdotto nuovi più rigorosi standard curricolari, i cosiddetti Common Core, cui corrispondono esami, e criteri di valutazione, ancor più esigenti. Essi sono stati molto criticati, perché eccessivamente rigidi, soffocanti e completamente scollegati alla realtà quotidiana di molti giovani americani, in particolare quelli meno privilegiati. Sul fronte della scrittura, però, i Common Core stanno generando un certo interesse e curiosità, giacché attribuiscono maggiore importanza all’abilità degli studenti di comporre testi analitici, più sul genere di quello che è poi richiesto all’università. Inoltre svincolano la scrittura dall’insegnamento dell’inglese e la integrano come mezzo di apprendimento in tutti i corsi, comprese le scienze e la matematica. L’intento è generalmente condiviso da studiosi e docenti. Molti però esprimono dubbi sulla scelta del governo federale di perseguire obiettivi più ambiziosi senza però chiarire come si possa garantire che li raggiungano tutti i ragazzi. Fin qui, in pratica, il traguardo per gli studenti si è allontanato, ma la preparazione alla gara è rimasta quasi la stessa. A difesa di Common Core, conclude Langer, va detto che il programma è ancora agli inizi. “Dobbiamo attendere ancora del tempo per comprenderne l’effetto reale,” dice la studiosa. 

Valentina Pasquali

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