UNIVERSITÀ E SCUOLA

Studi? Allora sei una minaccia

Era aprile, pochi mesi fa, quando un gruppo di affiliati ai militanti somali Al Shabaab entrarono armi in mano nel campus dell’Università di Garissa in Kenya. Uccisero 147 persone, ne ferirono più di 100. La terribile immagine dei corpi senza vita degli studenti, ammassati nel cortile, entrò nelle nostre case attraverso i media, scuotendo tutti profondamente. Soprattutto le comunità accademiche.

Perché quello di Garissa non rappresenta un episodio isolato, ma l’ennesimo atto di violenza perpetrato all’interno di una università, il più grave degli ultimi anni. La frequenza di uccisioni, rapimenti e minacce nei confronti di studenti e docenti ha raggiunto livelli allarmanti ovunque, soprattutto nelle zone del mondo soggette a conflitti o a regimi politici autoritari. O nei Paesi dove lo Stato è assente e il potere lasciato a gruppi che fanno della violenza e dell’intimidazione lo strumento principale della propria azione.

Secondo il rapporto Free to think, esito in costante aggiornamento del progetto di monitoraggio operato dal network internazionale Scholars at Risk e pubblicato pochi giorni fa, sono 485 i membri delle comunità accademiche – studenti e staff – uccisi negli ultimi quattro anni e mezzo. Gli autori del rapporto hanno verificato e registrato 333 attentati a istituzioni accademiche nel mondo, nel corso dei quali  sono stati portati a termine, fra gennaio 2011 e maggio 2015, 111 episodi di uccisione, violenza o sparizione, 47 casi di persecuzione giudiziaria ingiusta, 67 di detenzione, 37 episodi in cui il docente è stato licenziato o lo studente espulso, 12 casi di restrizione nei viaggi e altri 59 episodi di minaccia o altri tipi di violenza sistematica. Ma, si legge nel rapporto, “questo set di dati riflette solo una piccola parte di tutti gli attacchi a istituti di istruzione superiore”; la grande maggioranza delle violenze, infatti, non può essere verificata in alcun modo. Perché le prove vengono nascoste, le tracce insabbiate; perché la violenza non viene denunciata per timore di ulteriori ritorsioni, su di sé o sui propri familiari.

In diverse occasioni le istituzioni universitarie si sono dimostrate il bersaglio ideale per uccisioni di massa. Ambienti collettivi privi di difese, diventano minacce all’integralismo: in quanto luoghi di conoscenza, rappresentano infatti lo strumento più efficace contro fanatismo e autoritarismo. In particolare i campus nigeriani sono stati a più riprese scenario di attacchi mortali, come quello al Federal College of Education di Kano da parte di un gruppo di Boko Haram nel settembre 2014, in seguito al quale morirono almeno 15 persone e ne vennero ferite altre 34; o alla Kano State School of Hygiene nel giugno dello stesso anno (8 morti e 25 feriti), al politecnico statale di Kano in luglio (sei morti e sette feriti) e al Federal College of Education di Kontagora in novembre (due i morti, molti i feriti).

Diversi anche gli attentati alle istituzioni del Centro e del Sud America, imputabili in primo luogo a una latitanza governativa che lascia ampio spazio di movimento ai gruppi di narcos. Nel settembre del 2014, 43 studenti del College di Ayotzinapa, in Messico, vennero sequestrati dopo uno scontro con la polizia, sulla via del ritorno dalla città di Iguala, dove si erano recati per protestare contro la mancanza di fondi elargiti alla propria scuola. Nella sparatoria morirono sei persone; gli studenti vennero consegnati dalla polizia alla gang dei Guerreros Unidos che, secondo una ricostruzione attendibile, li uccisero e ne occultarono i corpi.

Se le uccisioni rappresentano il volto più terribile della situazione, a minacciare il mondo accademico non mancano imprigionamenti e detenzioni in nome di leggi che puniscono la libertà di pensiero ed espressione tacciandola di blasfemia, lesa maestà, diffamazione, sedizione, terrorismo. I casi più frequenti si registrano in Cina, Malesia, Arabia Saudita ed Etiopia, ma episodi sono stati verificati anche in altre 33 nazioni. Ilham Tohti, professore di economia in una università cinese, lo scorso settembre è stato condannato all’ergastolo in quanto sostenitore dei diritti della minoranza etnica Uighur; sette suoi studenti devono scontare fino a otto anni di prigione. 

Forme di aggressione più subdole prevedono l’uso di azioni amministrative intese a punire, prevenire o impedire parole, atti o condotte in linea con i diritti sanciti a livello internazionale, ma non con l’orientamento politico o religioso delle istituzioni o dei gruppi di potere. La ricerca di Scholars at Risk parla di episodi in Egitto, Malesia, Russia, Turchia e in altre 17 nazioni. Come nel caso del professore russo Andrey Zubov, licenziato perché aveva criticato l’invasione dell’Ucraina; di Boris Gonzales Arenas, che aveva scritto articoli troppo critici nei confronti dei leaders cubani; degli oltre 400 studenti del Bahrain sospesi o espulsi perché avevano partecipato a raduni in favore della democrazia.

Nonostante il rapporto non possa essere esaustivo, il network di Scholars at Risk ha cercato di delineare le modalità ricorrenti secondo cui si verificano gli attentati, con l’obiettivo di prevenire gli episodi di violenza o di proteggerne le vittime e chi sta loro accanto. Gli atti di intimidazione, abuso e brutalità non minano solo la sicurezza e la sovranità delle persone e delle istituzioni prese a bersaglio, ma estendono il sentimento di minaccia a chi è stato spettatore della violenza inferta ad altri. Non feriscono solo l’università, il libero accesso all’istruzione e la libertà di espressione, ma l’intera società che sul sapere e sulla ricerca deve essere in grado di costruire le basi per il proprio sviluppo.

Chiara Mezzalira

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