UNIVERSITÀ E SCUOLA

Geografia, dimenticata dalle scuole ma centrale per capire il mondo

L’insegnamento della geografia nelle scuole italiane sta conoscendo una progressiva marginalizzazione, cominciata da alcuni decenni e intensificatasi negli ultimi anni. Una crisi profonda, di cui si parla periodicamente e non solo tra gli addetti ai lavori, e che appare ancora più paradossale in un mondo così fortemente interconnesso in cui ci arrivano, rapidissime, notizie da ogni parte del globo.

La geografia è una scienza che consente di pervenire a una lettura globale del territorio, integrando non solo lo studio della conformazione della Terra e dei fenomeni che la caratterizzano, ma anche anche quello del rapporto tra le comunità umane e gli spazi da esse abitati. E dunque la questione non si limita all’incapacità di identificare su una mappa dove sta avvenendo quel conflitto o quell’evento climatico estremo di cui abbiamo letto un titolo sull’ultima edizione di un giornale online. Il rischio, come osservato di recente da Riccardo Morri, presidente dell’Associazione nazionale italiana insegnanti di geografia, in uno speciale che la rivista cartacea del Post ha dedicato al tema, è anche una comprensione appena superficiale di processi complessi, come le migrazioni o l’impatto del riscaldamento globale.

In un’intervista rilasciata qualche mese fa a Orizzonte scuola, Riccardo Morri affermava inoltre che “il 90 per cento degli studenti si presenta all’università con gravissime lacune nelle conoscenze di base della geografia, quasi del tutto impreparati a leggere e riconoscere i fattori geografici (socio-economici, culturali, ambientali) come chiave di accesso all’apprendimento anche di altre forme di saperi”.

L’impoverimento nella preparazione geografica affonda le sue radici in riforme scolastiche che hanno quasi del tutto cancellato lo studio di questa materia nelle scuole superiori, quelle che oggi chiamiamo secondarie di secondo grado. Nei licei, a partire dal terzo anno, la geografia sparisce dai programmi e durante il biennio è associata alla storia, per un totale (condiviso) di appena tre ore a settimana. Negli istituti tecnici e professionali l’insegnamento della geografia è stato ancora più penalizzato e questo è avvenuto anche in indirizzi di studio, come gli istituti tecnici di trasporti e logistica, in cui fornire solide basi di geografia sembrerebbe essenziale.

Come avviene nei processi a cascata, la graduale riduzione del ruolo della geografia nelle scuole ha portato ad altre conseguenze che, a loro volta, stanno contribuendo ad impoverire la qualità della poca geografia che viene ancora insegnata. Da un lato c'è un forte problema in termini di formazione e disponibilità degli insegnanti e dall'altro si rileva la tendenza delle case editrici a proporre libri di testo che uniscono storia e geografia, relegando però quest'ultima ad essere spesso presente solo come rappresentazione cartografica degli accadimenti del passato. 

Sulla crisi della geografia è intervenuto di recente anche Christian Raimo, osservando il destino opposto che ha invece investito la geopolitica, disciplina oggi molto popolare ma che manca ancora di una definizione univoca e condivisa. "Se sentiamo poco parlare di geografia, è vero invece che dalla pandemia alla guerra in Ucraina alla Striscia di Gaza, il discorso geopolitico ha acquisito sempre più ascolto, autorevolezza, egemonia", scrive Raimo sulla rivista Lucy. E aggiunge: "Mi sono domandato di che cosa fosse indice, questa fortuna; solo del ritorno della guerra nel nostro immaginario? E, mi sono anche chiesto, in che modo la geopolitica ha a che fare con la geografia?". 

Del ruolo della geografia nella contemporaneità, dei motivi che hanno portato questa disciplina ad essere messa sempre più in disparte nei programmi scolastici e delle iniziative che si potrebbero intraprendere per restituirle dignità abbiamo riflettuto insieme a Mauro Varotto, professore ordinario del dipartimento di Scienze storiche, geografiche e dell'antichita e fondatore del Museo di Geografia dell'università di Padova. 

Intervista e montaggio di Barbara Paknazar

Professor Varotto, prima di parlare della crisi che sta attraversando oggi questa disciplina le chiedo una sua riflessione sul perché lo studio della geografia è importante e sul ruolo che le conoscenze geografiche possono avere nella comprensione del mondo. 
 

Partirei dal nome geografia perché la parola etimologicamente, nel significato più antico, indica la rappresentazione grafica della Terra e spesso riporta alla carta geografica. C’è quindi un’idea un po’ cartografica della geografia. In realtà se noi utilizziamo questi due termini (la parola latina geographia deriva a sua volta dal greco antico: γῆ, "terra" e γραφία, "descrizione, scrittura" n.d.r.) in modo più ampio, ci accorgiamo che il campo della riflessione sullo spazio è sterminato. Tradizionalmente la geografia ha due funzioni: la prima è quella storica, prevalentemente ottocentesca, di collocazione degli elementi nello spazio. E’ una funzione importante che recentemente però è stata spesso demonizzata perché collegata ad un sapere mnemonico e nozionistico. In realtà avere le minime coordinate della distribuzione dei grandi o piccoli fenomeni nello spazio che ci circonda è fondamentale. Questo è il presupposto per la seconda funzione che ha la disciplina, cioè quella di cogliere le relazioni tra questi elementi nello spazio. Per esempio, se non sappiamo che Istanbul ha cinque volte la popolazione di Milano non ci rendiamo conto della dimensione e dell’importanza che può avere questa città. Allo stesso modo se consideriamo che la Nigeria ha cinque volte la popolazione dell’Italia ci rendiamo conto della portata delle migrazioni che possono generarsi da questo Paese sempre più povero. E’ quindi fondamentale passare dalla dimensione conoscitiva e dalla collocazione degli elementi nello spazio alle relazioni, ai rapporti che questi elementi intessono tra di loro.

La prima funzione della geografia, quella legata alla collocazione degli elementi nello spazio, è però spesso associata all'acquisizione di un bagaglio di conoscenze mnemonico e nozionistico. Secondo lei quanto pesa questa visione?

Il sapere mnemonico è uno dei mezzi ma non è il fine della geografia. E’ fondamentale come strumento ed è tra gli elementi basilari di un edificio del sapere che è fatto dalle connessioni. E’ ancora molto diffusa un’idea nozionistica e un po’ limitata della geografia che possiamo far risalire all’immaginario di  Antoine de Saint-Exupéry e alla figura del geografo ne Il Piccolo Principe dove questo personaggio è colui che si occupa solo di cose eterne, colui che sa dove sono i fiumi, i mari e i monti, intesi come elementi perenni e che non si muovono. In realtà la geografia è un sapere mobilissimo e se dovessi identificare una figura che oggi può rappresentare un’idea di geografia più dinamica sarebbe proprio il Piccolo Principe, non il geografo de Il Piccolo Principe. E’ colui che è attento alle relazioni, è un curioso osservatore di ciò che si muove intorno a lui e si prende cura di questi elementi, come emerge dagli incontri con la Rosa e con la Volpe. Gli elementi eterni della geografia in realtà esistono attraverso il loro movimento.

Bisogna educare ad un’intelligenza spaziale che ci consenta di avere la capacità di cogliere la complessità dei fenomeni che ci circondano Mauro Varotto

Arriviamo alla crisi dello studio della geografia, soprattutto nelle scuole secondarie dove il numero di ore di insegnamento è stato sensibilmente ridotto e i docenti specializzati sono davvero pochi. Quando gli studenti iniziano il loro percorso universitario quanto sono diffuse le lacune nelle conoscenze di base della geografia?

Le lacune sono molto evidenti anche perché si coglie questo gap conoscitivo e formativo della scuola superiore che è stato appesantito dalla legge Gelmini. Le ore di insegnamento sono state ridotte in tutti gli istituti scolastici e nei licei la geografia è stata accorpata alla storia. Abbiamo quindi una situazione in cui negli istituti tecnici e professionali si arriva ad un massimo di tre ore di geografia, spesso con docenti non abilitati e questo è un altro grande problema. Nel caso dei licei la criticità principale è l’accorpamento della geografia e della storia, in un meccanismo che di fatto però porta la geografia ad essere un’appendice ancillare rispetto all’insegnamento della storia. Spesso gli insegnanti di storia provengono dalle materie letterarie e all’università sostengono solo uno o due esami di geografia. Manca completamente la formazioe geografica sia nel corpo docente, sia nei manuali che vengono adottati per questi insegnamenti. Recentemente è stato lanciato il liceo del Made in Italy ma anche lì si è optato per la geostoria: la geografia è ridotta ai minimi termini ed è solo nei biennio. Il risultato è quello che ha sottolineato  una commissione ministeriale istituta dall’ex ministro Patrizio Bianchi e di cui fa parte anche Riccardo Morri. Il reporti realizzato dalla commissione, consegnato al ministro dell'Istruzione Giuseppe Valditara, ha messo in evidenza l’analfabetismo geografico diffuso che contraddistingue gli studenti che arrivano all’università. Faccio un esempio: quest’anno nel mio corso ho presentato dei casi studio sul ritorno alla castanicoltura nella provincia di Cuneo e all’esame più di qualcuno ha collocato Cuneo in Lombardia. Questa scarsa conoscenza di base poi si riverbera nella capacità di capire le relazioni più complesse e articolate dei livelli di istruzione successiva.

Alla crisi dell’insegnamento della Geografia si oppone il successo, nel dibattitto pubblico e sui media, della geopolitica. Secondo lei c’è una certa confusione nel mettere a fuoco le diverse prospettive delle due discipline?


In questo momento il successo della geopolitica è legato allo scacchiere bellico internazionale. La geopolitica però è un po’ una sineddoche rispetto alla geografia, perché prende una parte per il tutto. La geopolitica ha a che fare con il rapporto tra lo spazio e il potere e quindi le dinamiche di potere che vengono generate nel rapporto con lo spazio fisico, ma anche quello sociale. Però il modo di intendere la geografia non può essere solo la geopolitica perché la geografia ha a che fare con il nostro quotidiano, con le banane che mangiamo a colazione, il salmone e gli allevamenti intensivi, il cotone delle nostre magliette che probabilmente contribuisce al prosciugamento del lago d'Aral, le miniere congolesi che servono per i nostri smartphone. Insomma, essere consapevoli delle relazioni, delle filiere, dei rapporti che di volta in volta generiamo con lo spazio ci serve poi anche per essere cittadini più responsabili e consapevoli. Altrimenti rimaniamo in balia di slogan, stereotipi e semplificazioni di chi attraverso la geografia ci vuole vendere qualcosa, ma questa è una geografia superificiale che è pensata solo per rafforzare un interesse economico di parte.

A suo avviso cosa si potrebbe fare per ridare centralità alla geografia? E come si dovrebbero “attualizzare” i percorsi di studio, sia a livello di università sia nelle fasi precedenti?

A livello di scuola superiore e di scuola dell’obbligo credo che ci sia bisogno da un lato di superare l’idea che la geografia sia solo imparare a memoria delle capitali o degli stati. Bisogna rafforzare la seconda funzione della geografia, potenziare questo sapere geografico facendo in modo che si avvicini alle grandi emergenze del nostro tempo e che sviluppi le questioni che hanno a che fare con le dinamiche migratorie, con i cambiamenti climatici, con l’educazione civica, con il sovraffolamento turistico. Insomma, da un lato ci vuole un rafforzamento della disciplina anche in termini di ore settimanali e dall’altro lato bisogna però anche investire nella formazione degli insegnanti, rinnovare la disciplina, renderla autonoma rispetto alla storia e separare i voti delle due materie. A livello universitario dobbiamo mantenere la formazione geografica tout court, ma è importante che i corsi di laurea in geografia sappiano rispondere alle domande del nostro tempo, con una programmazione che sia in grado di dare allo studente una capacità critica per affrontare le sfide della contemporaneità. Da questo punto di vista possiamo immaginare la formazione geografica come il perno di una ruota, ma deve essere anche il raggio della ruota nel senso che è un ingrediente fondamentale per tante professioni e specializzazioni, dall’architettura all’urbanistica, dal turismo alle lingue, per arrivare alla medicina (se pensiamo al ruolo dell'ambiente sulla salute). In tante professioni la conoscenza del territorio e dell’ambiente è fondamentale. Io credo che questo raggio della ruota non debba limitarsi alla dimensione formativa degli student, ma abbia il compito di concretizzarsi anche nella formazione continua, una formazione che può offrire delle conoscenze anche a persone che sono già inserite nel mercato del lavoro. E’ la visione che abbiamo promosso, come geografi dell’università di Padova, a livello nazionale con un manifesto per la public geography che abbiamo lanciato nel 2018. L’idea è di una geografia pubblica che non sia confinata solo nelle scuole e nelle università, ma che si faccia promotrice di sapere anche in altri ambiti. Il Museo di geografia di Padova, che finora è il primo e unico in Italia, a cui sta seguendo adesso la creazione di un museo a Roma, è un’avanguardia a livello di promozione di eventi, iniziative e mostre che si rivolgono alla cittadinanza. Io credo che in questo modo rendiamo più consapevoli tutti i cittadini del fatto che ognuno di noi è un geografo, nel senso che ognuno di noi disegna una mappa. Ognuno di noi con le proprie azioni e i propri spostamenti crea un segno nel mondo. Questo ci aiuta a essere più consapevoli, più accorti, meno manipolabili e forse anche più felici perché consapevoli di fare parte di un tutto che ci appartiene e che ci riguarda.

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