SOCIETÀ

Tempo: la risorsa più importante, sprecata dai giovani

 

Un tempo era il decennio in cui ci si sposava, si facevano i primi figli e, nel caso degli uomini in particolare, si trovava l’impiego di una vita. Poi tutto è cambiato e oggi il periodo tra i 20 e i 30 anni è visto, nei paesi sviluppati, come un’epoca di transizione, esplorazione e divertimento. Una fase irripetibile in cui ci si può perdere per poi ritrovare se stessi, in cui si possono prendere direzioni diverse per poi imbarcarsi sulla giusta rotta, in cui si prende il lusso di sprecare tempo in vista del momento in cui si diventa adulti e i ritmi cominciano davvero ad accelerare e le responsabilità ad aumentare. Anche se nessuno, tranne forse i più conservatori, invoca un ritorno alle rigide norme sociali degli anni Cinquanta, alcuni dati economici e una serie di esperti temono però che oggi stiamo esagerando nella direzione opposta, e perdendo di vista l’importanza fondamentale che questi dieci anni hanno nello sviluppo di lungo periodo di ogni individuo.

Uno studio pubblicato a febbraio dalla Federal Reserve Bank of New York ha analizzato le dinamiche di reddito di circa cinque milioni di lavoratori americani durante 35 anni di attività lavorativa, tra il 1978 e il 2010. E ha trovato che, in quasi ogni caso, “il grosso della crescita salariale avviene durante la prima decade” di impiego, ovvero tra i 25 e i 35 anni di età. Per l’americano tipo, lo stipendio si blocca poi quasi completamente tra i 35 anni e i 45 anni e scende addirittura tra i 45 e i 55 anni, con l’eccezione del 10% di lavoratori al top della piramide economica. Tra le ragioni di questo fenomeno vi è senz’altro il fatto che, a inizio carriera, la curva di apprendimento e di produttività di un lavoratore è particolarmente ripida. “A 25 anni si sceglie un lavoro che ci permette di acquisire competenze importanti – ha dichiarato al Washington Post Fatih Guvenen, professore di economia presso l’università del Minnesota e tra gli autori dello studio – Si investe nel proprio futuro e i datori di lavoro ci permettono di farlo. Molto in fretta, Si comincia a produrre di più molto in fretta e loro sono quindi pronti a pagarci di più”. 

Il mercato del lavoro negli Stati Uniti è, storicamente, molto diverso da quello in Italia. In linea di massima, però, lo stesso ragionamento vale anche per il nostro Paese. “Qui i giovani entrano in media più tardi nel mercato del lavoro e partono con redditi sensibilmente più bassi rispetto a chi è in età più matura. Inoltre, la curva dei redditi è stata da noi finora maggiormente legata all’anzianità di servizio che alla produttività – dice Alessandro Rosina, docente di demografia e statistica sociale presso l’università Cattolica di Milano - Rimane comunque vero che anche nel contesto italiano conta molto iniziare bene e chi è più dinamico e intraprendente prima dei trent’anni ottiene migliori risultati nella carriera professionale”.

Rosina paragona i primi dieci anni di carriera al decollo di un aeroplano. “L’accelerazione è maggiore e più forte è la spinta per arrivare ad alta quota,” dice lo studioso, autore nel 2013 del libro L’Italia che non cresce. Gli alibi di un paese immobile. Dopo questa fase si viaggia a velocità di crociera, benché non sia escluso che rilevanti cambiamenti possano avvenire anche in tappe successive”. Utilizza la stessa metafora anche Meg Jay, specialista in psicologia clinica che si occupa in particolare della fase che più ci interessa, il decennio tra i 20 e i 30 anni, ed è autrice di un volume sul tema intitolato The Defining Decade. Scrive Jay: “I ventenni sono come aeroplani, in partenza da New York verso ovest. Il minimo cambiamento di rotta durante il decollo può fare la differenza fra atterrare a Seattle o San Diego. Ma una volta che l’apparecchio è ormai prossimo a San Diego, solo una grossa deviazione può portarlo verso il nord-ovest”. È all'inizio che scegliamo la direzione, e questa scelta ci condizionerà profondamente: ritardarla non fa che diminuire il ventaglio di possibilità a nostra disposizione”. Un'osservazione in definitiva scontata, ma di cui troppo spesso non si tiene sufficientemente conto.

Per Jay, quella che molti hanno preso a chiamare "un’adolescenza prolungata" o "una fase emergente dell’età adulta", è in realtà il passaggio più critico della nostra vita. In questo periodo siamo infatti più aperti a crescere e a cambiare; acquistiamo, anche attraverso impieghi lavorativi non prestigiosi, pezzi cruciali del nostro "capitale d’identità", quella serie di abilità e risorse – dalle conoscenze specifiche in dati settori professionali a caratteristiche personali come la tenacia o la capacità di affrontare imprevisti e pensare in modo non convenzionale, che ci serviranno in qualsiasi situazione. Dal punto di vista prettamente economico, questa riflessione getta un’ombra particolarmente sinistra sulla recessione degli ultimi anni. “Nel dibattito pubblico si dà molta enfasi agli effetti immediati e più diretti della crisi e molta meno attenzione viene data alle conseguenze di medio e lungo periodo – dice Rosina - Se è vero che un cinquantenne subisce nel presente un impatto maggiore per la perdita di lavoro rispetto ad un under 30, è anche vero che in termini numerici la disoccupazione giovanile è aumentata di più, e che le nuove generazioni si troveranno a pagare per decenni a venire gli scompensi di carriere bloccate, redditi bassi e discontinui”. 

La sfida, per l’Italia e per gli altri paesi europei più toccati da questo problema, è enorme, giacché si tratta di rimuovere dal nostro mercato del lavoro tutta una serie di barriere strutturali che penalizzano i giovani e che hanno origini di molto precedenti alla crisi. Bisognerebbe infatti cominciare a superare la mancanza cronica di impieghi pensati apposta per i neo-laureati, quindi sì entry-level come si direbbe in inglese, ovvero né pagati straordinariamente bene né particolarmente entusiasmanti, ma mirati a permettere loro di sviluppare in fretta le necessarie competenze professionali e concepiti come piattaforme di lancio da dove avviare rapidamente vere e proprie carriere. “In questi lunghi anni di crisi gli under 30 italiani hanno fatto un grande bagno di concretezza e la maggioranza di essi è diventata ancor più consapevole che il tempo perso in condizione inattiva rischia di condannarli ad un futuro grigio – dice Rosina - Se l’Italia non riparte un numero crescente di essi deciderà di andarsene all’estero”.

Esiste però anche una dimensione di responsabilità, e conseguente soddisfazione, personale. Jay ricorda una cliente trentanovenne che, qualche tempo fa, le confessava: “A questo punto nella mia vita, se devo lavorare e pagare l’asilo nido ed essere lontana dai miei figli tutto il giorno, ho bisogno che il mio lavoro sia interessante e ben pagato. Ma non riesco a trovare impieghi del genere. Quando avevo vent’anni non mi sono preoccupata di quello che avrei fatto professionalmente. Poi ho compiuto 30 anni e ho fatto figli. Ora abbiamo bisogno di soldi e devo lavorare. Ma non riesco a trovare niente. Faccio domanda e la gente mi guarda pensando, ‘ma perché non hai fatto nulla fino ad ora?’.

Valentina Pasquali

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