UNIVERSITÀ E SCUOLA

Turchia: prosegue la repressione contro le università

Una semplice petizione come tante, che invitava il governo turco a interrompere le violenze contro i civili nel Kurdistan turco. Eppure per averla firmata diversi docenti universitari, proveniente in particolare dell’università di Kocaeli (a pochi chilometri da Istanbul) sono stati arrestati dalla polizia turca. Quando nelle caselle di posta elettronica è arrivata quella mail Federica Broilo, allora docente a contratto nell’ateneo di Mardin (nel sud-est della Turchia, 20 chilometri in linea d’aria dal confine siriano), era in vacanza: “Spiace dirlo, ma è meglio così. Se avessi firmato non so cosa avrebbe potuto succedermi”. In tutta la comunità accademica adesso c’è paura, perché all’appello avevano aderito oltre mille tra docenti e ricercatori, sia turchi che stranieri (tra cui nomi conosciuti come Noam Chomsky e il politologo David Harvey).

Quando la sentiamo Federica Broilo, studiosa di arte e architettura ottomana, è appena rientrata in Italia dopo quattro anni e mezzo trascorsi in Turchia. Un addio reso necessario da una campagna contro i docenti stranieri, che ha raggiunto l’apice dopo il buon risultato del partito curdo (Partito Democratico del Popolo – HDP) alle elezioni di giugno 2015. “All’inizio ci hanno detto che ci avrebbero mandati subito via, poi a metà settembre hanno cambiato idea. Ci hanno lasciati lavorare fino alla scadenza del contratto, poi il 31 dicembre ci hanno mandati a casa”. Un esito che lascia l’amaro in bocca ma anche un po’ di sollievo: “L’ultimo non è stato un bel periodo: in Turchia oggi la situazione è veramente difficile, anche dal punto di vista accademico”. Un momento ulteriormente peggiorato dall’attentato del 12 gennaio scorso a Instabul, a causa del quale per ora sono morte 11 persone, tutte di cittadinanza tedesca. “Il giorno stesso il presidente Erdoğan ha tenuto un discorso in televisione – racconta Broilo –: 50 secondi per deplorare il massacro e 30 minuti per attaccare i docenti che avevano firmato per fermare carneficina dei curdi nel sud-est del paese”.

Appena un paio d’ore dopo lo YÖK, l’organo statale che si occupa dell’educazione universitaria, ha annunciato che avrebbe aperto un’indagine nei confronti di tutti i firmatari della mozione. La mattina successiva la polizia è andata a prendere i docenti nelle loro case. “Nella mia università hanno firmato in 28, tra cui il mio assistente. Da noi fortunatamente la polizia non è ancora venuta, ma i nomi sono stati pubblicati dai giornali: molti hanno ricevuto avvertimenti e intimidazioni, altri sono stati costretti alle dimissioni. Un noto criminale ha addirittura dichiarato pubblicamente che ‘si sarebbe fatto la doccia’ con il loro sangue. Non sappiamo ancora se il governo voglia davvero perseguire tutti i firmatari; tanti hanno cancellato i loro profili Facebook e Twitter. Oggi se ti azzardi a criticare il governo prendi come minimo una querela, se non addirittura la prigione”.

L’appello si rivolgeva contro i metodi usati nell’attuale campagna militare e poliziesca contro il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). “Stanno mettendo le città sotto coprifuoco una dopo l’altra, con i cecchini per le strade. Molti civili tra cui anziani, bambini e donne incinte, sono stati uccisi solo per aver aperto la porta di casa. Gli studenti ci hanno raccontato di aver avuto la casa bombardata da carri armati e da elicotteri, di persone costrette in casa per giorni, addirittura con i cadaveri dei loro cari in frigorifero perché non era nemmeno possibile celebrare i funerali. È successo a Diyarbakir, Silvan, Cizre, Nusaybin, Derecit... sono tante le città distrutte. I docenti hanno solo cercato di protestare contro questo massacro indiscriminato di civili, mentre il governo ripete che stanno solo colpendo i terroristi del PKK, e che se li difendiamo allora siamo terroristi anche noi”.

La situazione nel Kurdistan turco si è deteriorata soprattutto dopo le elezioni del 7 giugno 2015, quando per la prima volta in 14 anni il partito di Erdoğan ha perso la maggioranza assoluta in parlamento: un rovescio dovuto soprattutto all’affermazione dell’ HDP, che era riuscito a far eleggere ben 81 deputati su 550. Le speranze sono però state subito deluse: “In poco tempo i continui attentati hanno portato il terrore nel paese. Così, a causa dell’instabilità, nelle successive elezioni di novembre la gente è tornata a votare in massa il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP)”.

Vuol dice che c’è stata una vera e propria ‘strategia della tensione’? “Assolutamente sì. In particolare i sanguinosi attentati di Suruc e di Ankara hanno fatto nascere molti sospetti”. In particolare l’attacco kamikaze ad Ankara si è svolto pochi giorni prima delle elezioni, lo scorso 10 ottobre 2015, ed è stato subito paragonato a un ‘11 settembre turco’, con oltre 100 morti e centinaia di feriti. Oggi, dopo il nuovo atto terroristico contro gli stranieri a Istanbul, la sensazione è che la situazione sia sfuggita di mano e che l’Isis abbia smesso di attaccare solo il PKK per rivolgersi contro lo stesso governo turco, che in un primo momento lo aveva appoggiato nella guerra contro Assad. “Il governo però preferisce lanciarsi contro i professori, definendoli traditori ed eminenze oscure legate a terrorismo – conclude la studiosa –. Se però non è più nemmeno possibile firmare una petizione, allora significa che nel paese non esiste più la libertà di opinione. E nemmeno quella di stampa, dato che i media o sono sotto il controllo del governo, oppure vivono sotto la sua costante minaccia”. È della fine dell’anno scorso la notizia dell’arresto del direttore del giornale Chumuriyet, ‘colpevole’ di aver documentato il traffico di petrolio tra l’Isis e la Turchia.

Adesso Federica Broilo è pronta a iniziare un nuovo incarico di docenza presso un’università italiana: “Cosa mi manca della Turchia? I miei studenti, il dipartimento che abbiamo costruito da zero. Quelli che ho iniziato a seguire cinque anni fa quest’estate si laurereanno, e purtroppo non potrò essere lì a festeggiare con loro. Mi spiace per i colleghi che lascio, e perché stanno smantellando l’Università di Mardin solo perché è percepita come ‘curda’. Sono però contenta di non dover più nascondere quello che penso, di non esser più additata come straniera, come spia e come donna. Quella di oggi non è la Turchia in cui sono arrivata quasi cinque anni fa”.

Daniele Mont D'Arpizio

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