UNIVERSITÀ E SCUOLA

Università e chiacchiere da bar

Il docente universitario, questo sconosciuto. Criticato, stigmatizzato, dipinto con approssimazione da un giornalismo che, su questo tema, ha creato un genere letterario tutto nuovo e, apparentemente, assai popolare: la caccia ai “baroni” e ai loro privilegi. Ora arriva proprio “uno di loro”, uno che li conosce bene, a muovere la riflessione, dall’interno: lo fa Stefano Pivato, docente di Storia contemporanea e già rettore dell'università di Urbino, con il saggio Al limite della docenza (Donzelli).

L'autore passa in rassegna i fondamentali “tipi da cattedra”, in una sorta di breviario antropologico. C'è il professore “Come sto io?” che, se ti incontra per i corridoi, non ti chiede come stai, ma inscena un monologo, sciorinando tutti i suoi prestigiosi risultati accademici. Troviamo poi i prof. “Litigo, dunque sono”, per cui “litigare è una forma assoluta per certificare la propria presenza; e magari, giustificare la propria assenza”. Ci sono gli “autori di best seller” che, avendo “pubblicato presso un anonimo stampatore”, pur di vendere qualche copia, adottano il proprio volume come libro di testo per gli studenti. Si segnala poi la categoria dei prof. “passatisti”, in cui “è radicata un'insopprimibile insofferenza alla burocrazia” e per i quali lo “status di intellettuale” rende esenti da “certi doveri ai quali devono sottostare i dipendenti pubblici”. Infine, i docenti “Visti da fuori”, quelli che non suscitano interesse e non stimolano la società civile a sentirsi partecipe della vita universitaria, e che rendono “la corporazione universitaria una realtà anomala, chiusa nelle sue tradizioni e sorda alle sollecitazioni del mondo esterno”. 

Il docente-tipo necessita, in genere, di uno spazio sempre più confortevole: anche se deve fare lezione a pochi studenti, esige un’aula più grande ed uno studio individuale, magari corredato da un divano, perché, se arriva da lontano, ha bisogno di oziare un po', prima di affrontare il lavoro. Ozio, inteso etimologicamente, s'intenda. Quello contrapposto al negotium, ossia il tempo da dedicare alle speculazioni intellettuali.

Per chiunque abbia frequentato, sotto varie forme, l'università, queste caricature non appaiono lontane dalla realtà. Tuttavia, si tratta pur sempre di aneddoti, di semplificazioni, di generalizzazioni. Generalizzare – lo sappiamo – fa crescere il margine di errore, dando una rappresentazione molto parziale della realtà. Di questo, Pivato è sempre cosciente: “Certo, articoli di giornale di tanto in tanto s'intrattengono sugli scandali che emergono all'università ma, generalmente, la denuncia e l'invettiva prevalgono sulla volontà di comprendere”. Se quindi è facile rinvenire, tra i docenti universitari, gli archetipi descritti da Pivato, è vero anche questo: in quali categorie – professori, personale tecnico-amministrativo o giornalisti che siano – non si trovano tipi così? 

Ma, perché negare un fenomeno di malcostume nell'interpretazione del ruolo di docente che interessa almeno qualcuno? Infatti, a detta di Pivato, uno dei peggiori mali del mondo universitario italiano appare l'estrema autoreferenzialità e la poca voglia di riflettere su sé. Come mette in luce il professore di Urbino, il sistema di reclutamento universitario è, in questo senso, emblematico: ha permesso e permette solo a pochi eletti di “entrare”, attraverso il noto filtro “uno mio, uno tuo, uno bravo” che ha cristallizzato, con logiche spartitorie che prevalgono su valutazioni meritocratiche, lo status quo accademico. Pivato ritiene che solo una classe docente consapevole della necessità di adottare un nuovo atteggiamento può generare una riforma sostanziale degli atenei e delle dinamiche che li governano. L'intento dell'autore sembra quindi quello di salvaguardare la maggior parte dei professori e dei ricercatori che riesce, con grande passione, sacrificio e abnegazione, a produrre eccellenti ricerche e a preparare in maniera adeguata gli studenti, che costituiscono il “futuro” del nostro Paese. Un atto di denuncia che, al tempo stesso, è un gesto d’amore nei confronti dell'università.

Tuttavia, Al limite della docenza lascia al lettore un’impressione di occasione sprecata: possibile che per descrivere il funzionamento di un sistema che coinvolge quasi due milioni di persone non si potesse trovare di meglio dei cliché sui professori assenteisti (peraltro estinti)? Secondo gli ultimi dati del MIUR disponibili, riferiti all’anno 2013, l’università italiana ha 1.670.000 di studenti iscritti, produce ogni anno circa 300.000 laureati (nel 2013, 302.231) aveva due anni fa 53.446 docenti di ruolo (ora probabilmente diminuiti a causa dei pensionamenti e delle non sostituzioni), oltre a 26.857 docenti a contratto, personale tecnico-amministrativo per un totale di 59.827 lavoratori e, infine, qualche migliaio di altri collaboratori diversamente inquadrati. Tutto questo è un pezzo importante del Paese, un luogo di ricerca e di produzione di cultura, una speranza per il futuro: se ne potrebbe parlare cercando di andare a fondo dei problemi? 

G.N.

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