SOCIETÀ

Vivian Maier, l’America osservata con gli occhi della solitudine

Un rebus, avvolto in un mistero, all’interno di un enigma. Chi ha scoperto e raccontato al mondo la storia di Vivian Maier ha usato, per rappresentarla, le parole con cui Churchill descriveva nel ’39 la politica russa. Perché l’inesplicabile bipolarismo di questa donna scomparsa nel 2009, per oltre quarant’anni anonima bambinaia e, in segreto, straordinaria fotografa di strada, è un intreccio di talento e misantropia, arte e vocazione alla più totale solitudine, mantenuta per decenni in mezzo alle folle nelle metropoli americane, nelle case di famiglie vivaci, al seguito di bambini schiamazzanti.

La vicenda di Vivian Maier, alla cui opera dedica una mostra Ilex Gallery alla 10b Photography di Roma (Where Streets Have No Name, curata da Daniel Blochwitz, fino al 5 marzo) è profondamente hitchcockiana. Uno dei motivi per cui la sua popolarità è esplosa poco dopo la sua morte, oltre alla qualità dei suoi scatti, è l’abilità con cui John Maloof, il suo principale scopritore, ha saputo presentare i lati oscuri e le ambiguità della vita inspiegabilmente piatta e anonima di un’artista così sensibile. Tutto nasce nel 2007, quando la Maier, che vive in povertà a Chicago, vende all’asta alcuni beni contenuti in un magazzino. Tra i compratori c’è un giovane agente immobiliare, John Maloof: è a caccia di fotografie perché sta lavorando a un libro sulla storia di una zona periferica della città.

 Vivian Maier, At the Balaban & Katz United Artists Theatre, Chicago, IL, 1961. Foto: ©Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York

Dopo l’acquisto di un primo lotto di negativi, Maloof si convince a rastrellare quasi tutto il materiale della Maier, fino ad acquisire oltre 100.000 negativi, video, nastri registrati, insieme a una serie di suoi effetti personali come raccolte (a centinaia) di articoli di giornale, corrispondenza, souvenir: si forma così un grande archivio che, accanto alla produzione artistica della fotografa, ne documenta anche la vita privata. Maloof tenta invano di rintracciare la donna, ma nel 2009 viene a sapere della sua morte. Il “caso Maier” esplode poco dopo: alcuni suoi scatti, pubblicati su Internet, diventano popolari, iniziano a essere esposti nelle gallerie d’arte, e in parallelo monta un’enorme curiosità per il personaggio Vivian Maier, alimentata anche da alcuni documentari che ne ripercorrono la vita privata. La biografia della Maier, in effetti, sembra costruita ad arte per un thriller dell’autore di Psyco: di origine franco-austriaca, nata a New York nel ’26 e vissuta in gioventù tra Francia e America con la sola madre, dai 25 anni in poi dipana la sua vita fra New York e Chicago secondo un copione immutabile. Bambinaia al servizio di diverse famiglie, sempre sola, senza parenti né amici, riservatissima, bizzarra, tra la fine degli anni Quaranta e il termine del millennio scatterà migliaia di fotografie: immagini rubate lungo le strade, nei parchi, davanti alle vetrine dei negozi, teatri e ristoranti delle due metropoli americane. Dando prova della qualità dei migliori street photographers: la capacità di cogliere istanti in apparenza minimi, l’espressione nel volto di un passante, un’acconciatura, un bisticcio, particolari in grado di manifestare l’universale, il contrasto tra estremi sociali, economici, razziali, le grandi trasformazioni urbane, le sfrenatezze consumistiche, l’indigenza più cruda e, insieme, più rassegnata. Immagini realizzate in gran parte nelle sue due città: New York, in cui vive dal ’51 al ‘56, e Chicago, in cui resterà dal ’56 alla morte. Con un preambolo, gli scatti in Francia alla fine degli anni Quaranta, gli inizi della sua avventura fotografica, e le parentesi “esotiche” dei suoi viaggi negli anni Cinquanta e Sessanta: Canada, Sudamerica, Europa, Medio ed Estremo Oriente, Florida, Caraibi.

Un affresco immenso, ipertrofico quanto la produzione della Maier, una passione mai condivisa con alcuno, destinata alla discarica, se il caso non l’avesse portata alla luce. Una vita hitchcockiana persino nella rappresentazione di se stessa: nel suo lavoro sono frequenti gli autoscatti, in cui svela il narcisismo timido così frequente nei grandi tessitori di narrazioni. Come l’autore di Notorious si divertiva a comparire nei suoi film in brevissime sequenze, in cui si mimetizzava da cameriere o da passante, così la Maier si compiace di apparire in due modi: evocata da un’ombra, il riflesso di uno specchio, la silhouette che ammicca dalla finestra, oppure inquadrata a figura intera, colpita in pieno dall’obiettivo eppure, nella mimica del volto, sempre assente, lontana, quasi ironica nella sua inerzia, impassibile eppure soddisfatta.

La scoperta del fenomeno Maier è solo agli inizi: l’immane lavoro di Maloof, che ha fondato la Maloof Collection con lo scopo di classificare, pubblicare e studiare l’intera opera della fotografa in suo possesso (fondi più piccoli sono in mano ad altri due collezionisti), porterà a un archivio che ci racconterà l’evoluzione di uno degli sguardi più intensi della fotografia di strada del secondo Novecento. E ci spiegherà, forse, le ragioni di una vita interiore così ricca, e di un’esistenza così impalpabile.

Martino Periti

Vivian Maier, New York, NY, n.d. Foto: ©Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York

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