UNIVERSITÀ E SCUOLA

L’università di Padova alla prova dell’unità

Una storia viva dove ateneo, città e territorio – le mitiche “tre Venezie”, storico bacino dello studio padovano fin dai tempi della Serenissima – intrecciano i loro percorsi: a volte in armonia, altre in conflitto. Un laboratorio dove si mescolano e decantano esperienze e personalità che poi influenzeranno la vita cittadina e nazionale: è il quadro che esce da L’università di Padova dal 1866 al 1922, il libro appena pubblicato da Angela Maria Alberton con i tipi del Poligrafo.

Un periodo, quello scelto dalla giovane storica, di passaggio e allo stesso tempo decisivo, che va dall’ingresso del Veneto nel Regno d’Italia al settimo centenario dalla fondazione dell’università, fatalmente coincidente con l’avvento del fascismo. Quel regime che, scrive Mario Isnenghi nella presentazione, “ha avuto proprio nell’università di Padova, nella grande Facoltà di Giurisprudenza dei primi vent’anni del Novecento, uno dei suoi laboratori e delle sue teste pensanti”: come Alfredo Rocco, ministro guardasigilli e vero artefice della riforma dei codici, Donato Donati e Marco Fanno, questi ultimi vittime nel 1938 delle infami leggi razziali. Del resto il contributo dell’università non si limita al fascismo: dal Plebiscito del 1866 in poi sono numerosi i laureati e i docenti che vanno in Parlamento o assumono cariche pubbliche. Basti pensare a Luigi Luzzati, presidente del Consiglio dei ministri tra il 1910 e il 1911, oltre che fondatore e poi presidente della Banca Popolare di Milano, e Giulio Alessio, che da ministro di grazia e giustizia del governo Facta cercò nel 1922 di bloccare la presa del potere da parte di Mussolini.

Un ruolo di protagonista che l’ateneo affronta dopo alcuni anni di adattamento alla nuova realtà dello Stato unitario. Poi però la crescita diventa tumultuosa: nell’anno accademico 1894-1895, con i suoi 1.656 studenti, Padova si colloca al quarto posto per numero di iscritti dopo Napoli, Torino e Roma: un motivo di sicuro vanto, nonostante già in quegli anni si ponga il problema dell’eccessivo numero dei laureati e del loro futuro lavorativo. Nel frattempo si sono moltiplicati corsi e discipline: nel 1874 viene istituita la scuola di farmacia (due anni più tardi sarà la volta di quella per ingegneri), medicina e veterinaria iniziano a trasferirsi nei locali dell’ex convento di San Mattia. Dopo secoli insomma l’ateneo inizia ad uscire da palazzo Bo, ma siamo solo all’inizio: nel 1912 tocca infatti alla Biblioteca Universitaria spostarsi nell’attuale sede di San Biagio, mentre tra via Marzolo e via Loredan iniziano i lavori per i nuovi istituti.

Ma l’università è costituita soprattutto dai suoi studenti, spesso con la loro baldanza giovanile veri protagonisti della vita cittadina, delizia per qualche trattoria e osteria e soprattutto croce per tanti bravi borghesi pronti a scandalizzarsi a ogni occasione. Parliamo dello studente tipo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: sensibile a Bacco e tabacco, ai richiami politici e patriottici, sempre pronto a far baruffa e quasi esclusivamente maschio. Sempre nel 1894-1895 infatti sono appena cinque le studentesse a raggiungere la laurea, con buona pace di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, prima donna laureata nel 1678 proprio a Padova.

Questa massa di giovani ad alto tasso di testosterone e non sempre dediti allo studio – se stiamo alle testimonianze dell’epoca – rimane a lungo una variabile imprevedibile della vita accademica e cittadina, appena tollerata dai poteri accademici e locali. A volte blandita, altre contrastata in quanto fonte perenne di pericolo e di imbarazzo per ogni forma di status quo. Non si contano in questo periodo manifestazioni e comizi, provocazioni e disordini, e non sempre per motivi nobili: spesso infatti a essere presi di mira durante le lezioni sono i professori più duri e severi.  Va da sé, data l’epoca, che politica e patriottismo la fanno comunque da padrone; spesso poi nei gruppi e nelle associazioni giovanili si concentrano simpatie anticlericali, repubblicane, garibaldine e socialiste. Umori bollenti che non si placano nemmeno con il ricongiungimento alla madrepatria: da allora anzi, secondo la definizione dello storico Angelo Ventura, Padova diventa il “principale e più turbolento focolaio dell’irredentismo”, la “sentinella avanzata verso le Alpi Retiche e Giulie” a difesa delle popolazioni italiane. Una situazione esplosiva soprattutto dopo il 1882, quando con la firma della triplice alleanza Vienna diventa un partner decisivo sullo scacchiere europeo. Assistiamo in quel periodo a diversi provvedimenti contro la libertà di associazione e di manifestazione, culminanti nel 1885 nel decreto ministeriale Baccelli, con il quale si cerca di limitare drasticamente l’attività politica negli atenei, senza molto successo del resto. Infine dopo il 1914 Padova diventa uno dei principali centri dell’agitazione interventista fino a quando, con l’ingresso nel conflitto mondiale, la guerra arriva fin dentro i cortili del Bo. 1.200 studenti vanno al fronte, spesso rinunciando al rinvio per motivi di studio cui pure avrebbero diritto, quasi 200 non faranno ritorno. Un sacrificio che non sarà l’ultimo né il definitivo: molto altro sangue presto sarebbe ancora scorso, lambendo ancora una volta le aule universitarie. Ma questa, forse, è un’altra storia.

Daniele Mont D’Arpizio

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